«Io comunista? Non posso permettermelo, non ho i mezzi». Tutti conoscono questo fulminante aforisma di Ennio Flaiano. Ma il grande scrittore scomparve nel 1972, quindi l'idea che i comunisti togliattiani fossero cosi legati al popolo come la leggenda vuole, ci sembra appunto una leggenda. Nata soprattutto negli ultimi anni, quando gli eredi del Pci tra barche a vela, Capalbio, scarpe fatte a mano, dimore rigorosamente entro la ztl e salotti, hanno sposato le cause di tutte le minoranze possibili ed immaginabili, tranne quella della maggioranza delle classi popolari.
Certo, oggi l'élitismo e lo snobismo anti popolare della sinistra sono tanto evidenti da finire per essere macchiettistici, ma essi non ci appaiono in contraddizione, anzi piuttosto in logica continuità con l'eredità comunista. Quando Flaiano vergò quel pensiero, aveva infatti probabilmente in mente tutta la borghesia intellettuale, che fin dal 1948 aveva sposato la causa del Pci. Togliatti, molto sapientemente, non aveva nessuna intenzione di costruire un partito operaista e popolare come il cugino francese: doveva essere un Principe gramsciano che attraeva le fasce dirigenti, le élite della società, a cominciare dalla borghesia intellettuale.
Certo, statistiche alla mano, il Pci fino agli anni '80, cioè fino alla sua fine, restò il partito maggiormente votato da operai e classi popolari. Ma attenzione. Prima di tutto, esse sostenevano anche altri partiti non di sinistra, la Dc ovviamente, ma pure il Msi, i monarchici e persino i repubblicani. Il solo partito borghese era quello liberale. Inoltre, un conto erano i militanti comunisti, ben altro i vertici e i parlamentari, in cui la componente popolare ed operaia cominciò a diminuire a partire dagli anni '50. Come aveva dimostrato Robert Michels all'inizio del Novecento, i partiti che si battevano per l'emancipazione del proletariato erano guidati da borghesi, e il Pci non fece eccezione.
Infine terza ed ultima considerazione, dobbiamo ricordare che il comunismo, e il marxismo che ne è l'ideologia di base, sono fortemente ideocratici, e per loro non contano tanto le classi popolari, gli operai e i contadini reali, in carne ed ossa, quanto quelli ideali. Il proletariato serve ai comunisti solo come mezzo per attuare la rivoluzione, quindi esso è apprezzabile solo se si fa guidare dal partito: il popolo non comunista o addirittura anti comunista era infatti definito lumpen proletariato, teppa, massa reazionaria; oggi gli eredi del Pci dicono «populista». Quindi che il Pci di Berlinguer, egli stesso peraltro non formatosi nelle miniere sarde, fosse un partito solidamente proletario, operaio e contadino e che poi i suoi eredi l'abbiano tradito, fa parte della storia ecclesiastica interna al Pci, ma non è un giudizio storico accettabile. Anzi, negli anni '70, e proprio con Berlinguer, il partito comunista andò incontro a una sua prima importate mutazione, che lo rese molto simile per tanti versi all'attuale Partito democratico. La colse appieno Augusto del Noce, nel suo libro Il suicidio della rivoluzione, quando scrisse che il destino del Pci consisteva nel diventare un partito radicale di massa, cioè una forza politica borghese, pronta a battersi esclusivamente per i diritti individuali, anche e soprattuto delle minoranze, come in quegli anni stava facendo appunto Marco Pannella, e che ciò lo avrebbe allontanato dalle classi popolari. Oggi la profezia delnociana si è realizzata appieno. Ma attenzione, non fu un tradimento del marxismo: fu il suo inveramento, come scrive del Noce. Il destino del marxismo come filosofia della storia non poteva che essere quello di diventare una sorta di liberal-libertarismo.
Con un caveat, visibile soprattutto oggi in tempi di pandemia. Il Pd erede del Pci sarà pure diventato radicale di massa (massa molto esigua tra l'altro) ma la sua idea di potere e di Stato resta fortemente autoritaria, pedagogica e moralistica, come da tradizione comunista. Come non sentire nella lussuria da lockdown che anima molti dirigenti del Pd (anche se non tutti provenienti dal Pci) gli echi dei passaggi berlingueriani sull'austerità? Così nel celebre discorso di Berlinguer agli intellettuali riuniti, o per meglio dire convocati, al Teatro Eliseo il 15 gennaio 1977: «per noi l'austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l'esaltazione di particolarismi e dell'individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L'austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia».
Sostituite lockdown con austerità, e vi sembrerà di sentire parlare Zingaretti o Speranza. Cento anni dopo Livorno, il partito comunista è morto, la sua ideologia forse, almeno in Italia, ma come oggi mai ci sembra trionfare qualcosa di persino più subdolo: la mentalità comunista.
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