Contrordine compagni, la sinistra scopre la leadership

Contrordine, il decisionismo non è più un’orribile cosa «di destra», scopre ora la sinistra. Ministri, sindacalisti, confindustriali e intellettuali: amici e avversari chiedono quasi in coro al presidente del Consiglio «di agire». O meglio, «di esercitare la leadership», per usare la perifrasi di moda. Ma gli appelli che si susseguono sui giornali e nei convegni non hanno finora prodotto grandi risultati. Come gli rimproverano anche gli alleati, Romano Prodi continua a non decidere, a non scegliere, a non far valere il ruolo della sintesi tra le varie e litigiose forze che lo appoggiano. Eppure, l’avevano incoronato alle primarie, con l’immancabile rito della «società civile», proprio per questo, per la sua evocata personalità «al di là dei partiti». Ma alla prova del governo il leader non fa il leader.
Adesso la sinistra delusa guarda altrove alla ricerca di paragoni e di consolazioni, e conclude con invidia che qui manca un Nicolas Sarkozy di tendenza ulivista. Non basta. Gli studiosi ricordano che Tony Blair e José María Aznar, ciascuno in campi e tempi diversi, hanno vinto e rivinto in Gran Bretagna e in Spagna «facendo cose giuste anche se dolorose in politica economica», perché entrambi «hanno dato prova di autentica leadership» (così l’ex commissario europeo Mario Monti a Repubblica). E in Germania si racconta di quanto pesi e conti Angela Merkel, la nuova signora di ferro che ha la responsabilità di un governo ancor più complicato del nostro, essendo fondato sull’ampio accordo degli opposti (conservatori e socialdemocratici).
Ma dietro ai solleciti del centrosinistra a Prodi perché si muova come il capo di una coalizione, non c’è soltanto l’incertezza sul da farsi tra pensioni e Tav, famiglia e sicurezza, tasse e riforma elettorale. C’è soprattutto il tardivo riconoscimento del fallimento nell’aver demonizzato per decenni - quasi quattro, a partire dal Sessantotto -, il concetto stesso di leadership. Sembrava un rifugio per biechi reazionari, il sogno del borghese qualunque che cede al fascino del carisma. E fino ai primi anni Novanta neppure a un sindaco di paese si poteva né doveva riconoscere il diritto a essere eletto direttamente dai cittadini: «deriva plebiscitaria», ammonivano. Ma intanto a sinistra, e prima di Prodi, sono arrivati i Blair e i Clinton, i González e i Mitterrand. E piano piano anche da noi s’è dovuto convenire che in politica la differenza, alla fine, la fanno le persone e la loro capacità di scegliere a costo dell’impopolarità; come d’altronde avevano dimostrato, dalla parte opposta, le Thatcher e i Reagan. Ai quali, tra l’altro, nessuno aveva mai dovuto domandare d’«esercitare la leadership»: l’esercitavano.


Adesso i solleciti a darsi una mossa, sono una valanga. Ma Prodi può durare proprio se non sceglie. È il paradosso di una richiesta fuori tempo massimo per quella sinistra che arriva sempre in ritardo.
f.guiglia@tiscali.it

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