nostro inviato a Bresso (Milano)
Arriva la «papamobile» sull’immenso prato di Bresso, le telecamere volteggiano per riprendere i fedeli in prima fila. Ecco Mario Monti, Rosy Bindi, Maurizio Lupi con signora, Roberto Formigoni, le altre autorità. E poi lui, l’insospettabile, Umberto Bossi, in giacca e cravatta. Si allontanerà prima che la celebrazione sia finita, ma la sua presenza non è un semplice atto di ossequio.
Bossi dal Papa a Milano. La partecipazione degli altri vip della politica meneghina era scontata, compresa quella del premier Monti che al termine della messa è andato a salutare Benedetto XVI prima ancora che si togliesse i paramenti sacri. Bossi no, non è scontato. Il Senatùr che nacque tra riti celtici e manifestazioni pagane e padane, che battezzò la sua Lega non nel Giordano ma nel Po, che all’ultimo figlio non ha imposto il nome di un santo del calendario ma di divinità mitologiche, Eridano Sirio. Le ampolle, la cosmogonia dimenticata, i riti iniziatici nel Po e in laguna, le cerimonie di investitura a Pontida, i giuramenti sulla Padania. Tra la Lega delle origini e il cristianesimo c’era un abisso. Poi è arrivata Irene Pivetti e la sua integerrima fedeltà agli ideali più tradizionali della fede cattolica. La pulzella col crocifisso al collo divenuta presidente della Camera guidò il Carroccio verso i valori che innervano la storia d’Italia, quella contro cui si scagliavano Bossi, Miglio e compagnia.
Nacque una consulta cattolica della Lega. Ma il Senatùr insisteva a prendersela con i «cardinaloni» e i «vescovoni». Roma è sempre stata ladrona, quella politica al pari di quella ecclesiastica, e infatti il leader leghista non ha mai perso l’occasione di fare il mangiapreti criticando lo Ior e monsignor Marcinkus. La sterzata più netta risale però al 2001. Anno cruciale: la Lega andò al governo per cinque anni e Bin Laden abbatté le Torri gemelle di New York. L’imponenza del pericolo islamico indusse Bossi ad allontanarsi progressivamente da quell’infarinatura pagana, dai ritualismi esoterici che dovevano riesumare gli arcani spiriti dei longobardi e dei celti, ovviamente prima della conversione alla fede cristiana. Anche la Lega, come i barbari, in qualche modo si piegò davanti alla croce di un nuovo Costantino.
Era anche un modo per rinsaldare il legame con l’elettorato. Umberto aveva capito che il folklore padano non faceva presa nel popolo leghista, composto di gente semplice, operai, agricoltori, casalinghe, che la domenica riempie le chiese e non i luoghi dei sacrifici pagani. Il Carroccio divenne addirittura contiguo agli ambienti cattolici più tradizionalisti, quelli che amano le messe in latino e non mancano di rievocare le eroiche gesta della battaglia di Lepanto, la madre di tutte le vittorie anti-islamiche. San Marco, patrono di Venezia, divenne una specie di protettore e il leone un simbolo immediatamente riconoscibile su tutte le bandiere leghiste. Il Carroccio, Borghezio in testa, mandò una delegazione ufficiale a San Pietro quando Giovanni Paolo II beatificò padre Marco d’Aviano, il cappuccino che benedisse le truppe occidentali che sotto le mura di Vienna sconfissero l’esercito ottomano nella battaglia del 1683.
Più recentemente, nel bel mezzo di un’altra battaglia, quella sulla sua poltrona, Bossi ha nuovamente mostrato attenzione verso il Dio dei cattolici. Lo scorso venerdì santo il Senatùr lasciò per un’oretta la sede di via Bellerio dove si processavano Belsito e Rosi Mauro per partecipare in una parrocchia vicina alla commemorazione della morte di Gesù. Non sarebbe dunque strano vedere il leader leghista in ginocchio dal Papa se non fosse per un sms che circolava ieri tra i suoi fedelissimi. La sua presenza sarebbe nientemeno che un segnale contro Maroni.
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