La Corea del Nord: sì a negoziati sul nucleare

Bush ringrazia la Cina per le pressioni esercitate su Kim Jong Il

Marcello Foa

Era l’unico epilogo possibile ma, fino a ieri, non era affatto scontato; al punto che persino il ministro degli Esteri giapponese, tre ore prima dell’annuncio, escludeva una svolta sulla questione del nucleare nordcoreano. Ma da ieri pomeriggio la crisi, sebbene resti grave, torna ad essere risolvibile. Il dittatore rosso Kim Jong Il ha accettato di riprendere i negoziati a sei che aveva abbandonato circa un anno fa.
È il trionfo della diplomazia, ovvero dell’arte di saper difendere con fermezza le proprie posizioni, in questo caso ricorrendo anche alle sanzioni, ma senza nemmeno minacciare misure militari. Il mondo ha messo il governo di Pyongyang con le spalle al muro, costringendolo a capacitarsi che la propria follia non avrebbe avuto altro risultato se non l’isolamento assoluto e alla fine l’implosione del regime stesso.
Ieri i rappresentanti di Cina, Stati Uniti e Corea del Nord si sono riuniti a Pechino, in gran segreto; primo contatto diretto dopo mesi di dure polemiche. Il risultato è quello sperato: a novembre i tre Paesi si ritroveranno per riprendere il negoziato multilaterale che, come in passato, sarà esteso a Corea del Sud, Giappone e Russia.
«Il cammino sarà lungo e non intendo certo stappare bottiglie di champagne», dichiara il vice segretario di Stato Christopher Hill, ammettendo che comunque Kim Jong Il non ha rinunciato formalmente a nuovi esperimenti, dopo quello compiuto lo scorso 9 ottobre. Ma ora Pyongyang «è pronta a rinunciare alle armi nucleari in cambio di concessioni». Nel pomeriggio Bush si dice «molto soddisfatto» e si premura di «ringraziare la Cina», che cita ben due volte.
Un Bush insolitamente premuroso, a ragion veduta: senza Pechino, che comunque ha agito in stretto coordinamento con Washington, la svolta non sarebbe stata possibile. Sono stati i negoziatori cinesi a dialogare con il «Caro leader»; loro a rendere efficaci le loro argomentazioni diminuendo, senza ammetterlo pubblicamente, le esportazioni di cibo e di petrolio verso la Corea del Nord, senza le quali il Paese non sopravvive. E il messaggio è stato recepito dal loro ex protetto Kim Jong Il. Il presidente Hu Jintao esce doppiamente rafforzato: ha disinnescato un problema che rischiava di destabilizzare tutta l’area e vede aumentare considerevolmente il suo prestigio internazionale e dunque le sua capacità di farsi ascoltare, soprattutto dalla superpotenza statunitense. La diplomazia cinese oggi conta molto di più.
La Corea del Nord glissa. Nessun commento sulla stampa di regime. Che cosa ha ottenuto in cambio Kim Jong Il? In apparenza nulla, perché le sanzioni restano in vigore; tuttavia è verosimile che abbia ricevuto rassicurazioni sui suoi conti all’estero, congelati nel 2005 dall’Amministrazione Bush. Era il denaro la vera ragione del suo improvviso, scriteriato irrigidimento ed è lì lo snodo di qualunque soluzione. In quali termini per ora nessuno lo sa.
Seul tira un sospiro di sollievo, ma è ancor più cauta degli Stati Uniti nello scrutare il futuro, perché proprio ieri sera ha ricevuto un nuovo avvertimento di Pyongyang, che l’ha minacciata di «conseguenze catastrofiche» se deciderà di aderire al Programma di sicurezza anti-proliferazione. E anche Tokio, gaffe a parte, ha salutato il «passo nella giusta direzione», ma preferisce «continuare a privilegiare la prudenza»; al punto che il numero due dell’esecutivo, pur ribadendo il ripudio degli armamenti nucleari, ha ambiguamente osservato che «in futuro il Giappone potrebbe avere tutti i diritti di esserne dotato».


Certo, rivelazioni come quelle contenute nel rapporto di un deputato conservatore sudcoreano non fanno che rafforzare la diffidenza: nella Corea del Nord esisterebbe una rete segreta di villaggi blindatissimi, in cui scienziati, tecnici, militari e operai lavorerebbero al programma nucleare. In tutto 36mila persone, comprese le famiglie, completamente isolate dal resto del Paese. Kim Jong Il tratta ma non abbandona i piani atomici. Non ancora, perlomeno.

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