Alessandro Massobrio
Mai forse come nel caso di questo lungo saggio sulla provincia ligure-piemontese degli anni Venti (un saggio che spesso prende a prestito le ali del romanzo per solcare i cieli di quanto manzonianamente la storia non è in grado di raccontare, ma la poesia sì) la copertina è stata eloquente. Una copertina che riproduce uno splendido dipinto di Mario Sironi, l'epico cantore delle periferie, attento alla tradizione più vera della pittura italiana, quella quattrocentesca, ma, al tempo stesso, non ignaro di quanto di nuovo stava fervendo in Europa.
Questo qualcosa di nuovo si chiamava futurismo ed il futurismo si fa strada in Italia soprattutto sul ritmo della pedivella, del cerchione in legno, del tubolare da portare a tracolla, come fosse la bandoliera di Pancio Villa e degli occhialoni alla Girardengo. Fatti apposta per riparare, per quanto è possibile, gli occhi del ciclista dagli spruzzi di fango delle strade non asfaltate, sulle quali egli si inerpica con la sua «macchina».
Non a caso, il quadro di Sironi ci presenta, in una sorta di spaccato, due ciclisti, curvi sul manubrio del proprio mezzo. Una sorta di fumetto, che tuttavia fornisce egregiamente l'idea di come lo stesso cavallo meccanico si presti ad esigenze sociali totalmente diverse.
C'è il borghese in paglietta e abito chiaro che attraversa una periferia cittadina e c'è un atleta che sgomma sulla lunga e tortuosa schiena di serpe di una strada provinciale, sbirciando a tratti indietro, nel timore che il gruppo abbia a raggiungerlo.
La vicenda esistenziale di Costante Girardengo e di Sante Pollastro si risolve dunque in questa tela, che forse basterebbe da sola a immergerci nel contesto sociale di quei lontani anni Venti. Gli anni di un fascismo ancora calato nelle ghette del giovane Mussolini, l'homo novus della politica italiana, attento e circospetto a non urtare i poteri forti del tempo, quelli che da secoli governano con somma indifferenza la vita grama della povera gente. La povera gente di Novi, per esempio, provincia ligure-piemontese immersa nella nebbia d'inverno ed in un insostenibile caldo d'estate.
La Novi proletaria, quella che la consumata sapienza narrativa di Marco Ventura ci presenta come sfondo naturale su cui dipingere in primo piano gli eroi di una storia che sembra frutto di fantasia ed invece appartiene alla più dolente realtà, è quella di u Burgu de lavere, il Borgo delle lavandaie, un interminabile susseguirsi di bacili e conche di pietra dove le donne del posto battono e sciacquano i panni propri, ma soprattutto altrui.
U Burgu de lavere è certamente una estrema propaggine di Novi, ma anche una periferia in fermento, dove il malcontento sociale evoca fantasmi di rivolta. Che se non si incarnano nella reazione all'ordine costituito dell'anarchico socialista, finiscono per assumere i contorni ancora più inquietanti della delinquenza comune. Che in pochi anni, dall'infanzia all'adolescenza, già si guadagna - come nel caso di Sante Pollastro - ben due anni di carcere.
Quel carcere di cui spesso ci parla Victor Hugo ne I miserabili. Luogo di punizione e recupero, nel quale chi entra, tra il pianto e la disperazione, a tredici anni, ne esce, a diciassette, con una cupa indifferenza calata sul viso. È l'indifferenza di chi non teme di premere il grilletto del proprio revolver, sempre per aprirsi una strada verso la fuga. Che è poi una libertà guadagnata sui pedali, perché sarà sempre in bicicletta che Sante Pollastro compirà le sue rapine.
Le rapine di un tifoso di Girardengo, anzi, di più, di un Girardengo mancato, che avrebbe voluto conquistare la gloria sulla strada ed invece la strada ha dovuto mettersela sotto le ruote per sfuggire di mano ai carabinieri che a volta tanto gli sono vicini da alitargli sul collo.
Sante però ha fatto tesoro degli anni di apprendistato. Insieme con Costante ha frequentato la grande scuola di Biagio Cavanna. Cavanna è masseur ma anche veggente. Un veggente alla Rimbaud, in quanto quasi del tutto cieco, ma dotato di quella vista interiore che gli permette di cogliere, dietro la scontrosa magrezza dei monelli di strada, il futuro campione.
Così ha fatto per Belloni, Girardengo e così farà per Fausto Coppi. Quanto a Pollastro, subito intuisce che da quello mai si potrà cavare il campione. Magari qualcos'altro. Magari, il leader, il politico, il grande criminale, ma non certo la locomotiva umana, che, sbuffando, distacca il gruppo sulle pianure di Alessandria, per infliggergli poi distacchi biblici sulle salite dell'appennino ligure.
Ma - come si è detto - la lezione di Biagio Cavanna, che sotto la magica penna di Gianni Brera acquista il rilievo di Long John stevensioniano, non va perduta. Pollastro si trasformerà nel bandito in bicicletta, l'uomo dalla mira infallibile e dalla pedalata rapida, che, quando sente dietro di sé le «guardie», non ha esitazioni a sparare sui fanali dei lampioni.
Marco Ventura, Il campione e il bandito, il Saggiatore, Milano 2006, pag. 303, euro 16,00.
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