Fu Maksim Gork'ij, specie di re Mida della letteratura russa, a scoprirlo: «La Vostra lingua è ricca di parole semplici e belle... tutto questo Vi ha conferito un posto particolare nel mio cuore, tra decine di prosatori d'oggi, gente senza volto».
Era il 1910, Ivan melëv aveva 27 anni; nato in una famiglia di Vecchi Credenti, era cresciuto nell'azienda del nonno, abile carpentiere, «quello è stato il primo libro che ho letto il libro della parola viva, sciolta, espressiva», dirà, vantandosi. Grazie alla benedizione di Gork'ij, pubblicò Memorie di un cameriere, romanzo di tremendo successo (in Italia fu tradotto nel 1928) che lo elevò tra i massimi scrittori dell'epoca. Pensò, come molti, che la Rivoluzione del febbraio 1917 fosse l'inizio di un'era più giusta, di gioia, melëv: l'Ottobre, ai suoi occhi, fu un truce tradimento. Si ridusse coi Bianchi, in Crimea, e, da russo, da scrittore, visse il delirio della guerra civile, vide la fine della Russia. «Spazzare con scopa di ferro la Crimea e buttarli tutti a mare!... Loro hanno schiene larghe come lastre, colli grossi e lucidi, taurini, occhi pesanti come il piombo, iniettati di sangue, satolli; mani-mazze che possono ammazzarti con un colpo solo», scrive nel romanzo epocale, epica suicida, massa verbale lebbrosa, dislessica, disfatta, memorabile requiem, Il sole dei morti, l'assolo sul corpo morto della Rivoluzione. La storia di Ivan melëv, a questo punto, ricalca quella di troppi intellettuali russi con l'aggravio di un dolore ulteriore. «Da 60 a 120-150.000 sarebbero state tra la fine del 1920 e la metà del 1921 nelle varie città della Crimea le vittime dirette degli organi della repressione... mentre non calcolabili i morti per fame e malattie» (Sergio Rapetti). Il figlio di melëv, Sergej, arruolatosi tra i Bianchi, rifiuta la fuga, si fa arrestare dai Bolscevichi, viene fucilato. A quel punto, i coniugi melëv percorrono l'esodo: prima Berlino, poi Parigi. «Perché Berlino? A quale scopo?... Quando l'anima è morta e la vita è solo la mera condizione di un palo, un ciocco, tutto è indifferente», scrive melëv all'amico Ivan Bunin, futuro Nobel per la letteratura. Anche lui, melëv, nel 1931 e nel '32, arrivò a un passo dal Nobel; a Parigi scrive il capolavoro, Il sole dei morti, in cui l'afflato lirico si fonde con la violenza verbale, specie di Apocalisse schizzata, di morbosa bellezza («La vita è bruciata. Della fiamma resta un nero fumigare. Guardo negli occhi solo gli animali. Ma neanche di loro ne restano molti»). Aveva il viso contratto, fuori posto, da espulso dalla vita, melëv. Non s'adattava al clima di Parigi, chiedeva di Gork'ij, «Leggeva cose antiquate, sacre, stupide, sulle processioni religiose e i piatti russi», spettegolava di lui Nina Berberova. Un'altra guerra civile divideva i russi in esilio. Durante l'occupazione, melëv fu dalla parte di Vichy; per lo meno, pubblicava su Pariskij vestnik, la rivista degli emigrati che supportavano, in funzione antistalinista, i tedeschi. «Sia pure attraverso un foglio nemico, intendevo bisbigliare la verità ai miei lettori...», si giustificherà. Non gli perdonarono nulla; in Italia, pubblicato da Bompiani e Rizzoli, finì cautamente dimenticato. Eppure, nel 1926 Thomas Mann era giunto a Parigi per fargli visita: Il sole dei morti, scrisse, era «un documento tremendo, soffuso di splendore poetico».
Ma alcuni destini, si sa, inacidiscono nel ferro.
melëv morì di infarto nel 1950, appena entrato nel monastero ortodosso di Bussy-en-Othe. Dal 1935 scriveva un romanzo folle, Le vie celesti, «sul tema della redenzione attraverso il peccato». Aveva fede nello straordinario.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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