Così Leone accese (e spense) gli ultimi fuochi di un'epopea

Dalla Trilogia del Dollaro all'opera del '68 il regista ha reinventato e poi condannato a morte il genere. Portandolo nella "quarta dimensione del fantastico e della favola", come scrive Diego Gabutti nel suo saggio

Così Leone accese (e spense) gli ultimi fuochi di un'epopea

Quando Sergio Leone girò C'era una volta il West, 1968, non aveva ancora quarant'anni, ma aveva già fatto tutto. Non parlo di un apprendistato da figlio d'arte, ovvero da chi, sulle orme paterne, aveva bazzicato il cinema sin da bambino, facendo di tutto, conoscendo tutti, cinematograficamente parlando. È che con quel film che pone il sigillo alla cosiddetta Trilogia del Dollaro, sua consacrazione e insieme suo epitaffio, Leone era riuscito nell'impresa che, come nota Diego Gabutti in Nel West con Sergio Leone (Giulio Perrone editore, pagg. 146, euro 16), pochi artisti, a qualsiasi genere appartengano, «possono anche soltanto sognare: stravolgere le regole del gioco, fare da spartiacque tra il prima e il dopo - nel suo caso di qua sei decenni di cinema western all'antica hollywoodiana, di là non il suo crepuscolo ma peggio: la sua implosione». Dopo di allora, tornare indietro sarebbe divenuto impossibile e andare avanti si sarebbe rivelato un'illusione nel migliore dei casi, una rimasticatura nel peggiore. Non che in seguito non siano apparsi sul grande schermo western di buona fattura, ma era il genere a rivelarsi improponibile nella sua essenza, la filosofia, se si può usare questo termine, che ne era alla base. Al suo posto c'erano le variazioni sul tema, dove se lo scenario era più o meno lo stesso, chi lo popolava era un altro da sé, unico e insieme incongruo.

Qualcosa del genere, va detto, era già avvenuto con il cosiddetto noir cinematografico, detective e delitti, insomma, che chiude il suo ciclo classico intorno agli anni Cinquanta del Novecento, ma qui le motivazioni avevano a che fare con il mutamento sociale, una diversa società dei consumi e, se si vuole, una nuova modernità del crimine, mentre nel caso di Sergio Leone bisogna dire che aveva fatto tutto da solo: aveva reinventato un genere e nel farlo lo aveva condannato a morte. Come scrive Gabutti, «qualcosa di simile hanno fatto Orson Welles con Quarto potere e Walt Disney, con Biancaneve e i sette nani: aperte e subito chiuse nuove strade, che si possono guardare da lontano ma che non si possono imboccare, perché (uno) sono percorribili solo da parte di chi le ha scoperte, e perché (due) lì ci si può avventurare una volta soltanto, la prima e l'ultima».

Gli aficionados e/o gli esegeti di Leone obietteranno che dopo C'era una volta il West, il regista romano girerà ancora un western, Giù la testa, del 1973. È un'obiezione sensata, ma è un'obiezione sbagliata, perché Giù la testa è un film sulla rivoluzione e non a caso il suo primo titolo era C'era una volta la rivoluzione... È forse l'unico fra quelli da lui girati che ha a che fare con lo Spirito del tempo e infatti si apre con una celebre citazione di Mao: «La rivoluzione non è un pranzo di gala» e, come osserva ancora Gabutti, pare che «l'ideologia travestita da storia faccia irruzione. Non è una regressione alla Trilogia del Dollaro. È una deviazione dal percorso, né uno zig né uno zag, ma una sorta di film sabbatico, extracurriculare». Sta di fatto che da lì alla sua morte, avvenuta nel 1989, a sessant'anni, Leone girerà soltanto un'altra pellicola, imponente e insieme ingombrante, C'era una volta in America, 1984, e fantasticherà su almeno altre due o tre sceneggiature epocali. Una riguarda I 900 giorni di Leningrado, dal libro di Harrison E. Salisbury, una sorta di «Iliade raccontata dall'interno delle mura di Troia», come egli stesso la riassumerà. Un'altra, La condizione umana, dall'omonimo romanzo di André Malraux, ovvero la fallita rivoluzione comunista nella Cina degli anni Venti, ostacolata, sempre a suo dire, dal fatto che sullo schermo, come nella vita, distinguere un cinese da un altro è impossibile... La terza, che sfiora la mitologia, è il céliniano Viaggio al termine della notte, di cui a chi scrive parlò più di quarant'anni fa a Parigi Giorgio Locchi, ma che secondo altre fonti cinematografiche, lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, mi pare, Leone aveva letto grazie a lui...

Critico cinematografico di lungo corso, nonché scrittore in proprio e bibliomane e bibliofilo inesausto, non è la prima volta che Gabutti dedica il suo interesse a Leone. Suo è quel C'era una volta in America, scritto in diretta sul set, pubblicato da Rizzoli e poi da Lindau. E non è la prima volta che si interessa di western: Cavalieri pallidi, cavalieri neri (Milieu) raccontava il cinema western (ma non solo) di Clint Eastwood, senza contare le divagazioni in materia che percorrono altri suoi saggi, da Evasioni (Lindau) a Maschere e pugnali (WriteUp). Qui, tuttavia, proprio perché il tema, come suggerisce lo stesso titolo del libro, appunto Nel West con Sergio Leone, è uno per quanto bino, Gabutti mette un freno a quella sua straordinaria capacità di saltare da un trapezio culturale a un altro, storia, storia delle idee e spy story, fumetto, fantasy e fantascienza, narrativa alta e narrativa bassa, sempre senza mancare la presa e senza sfracellarsi sul luogo comune, e ci consegna un testo che da un lato è un omaggio a un grande autore e dall'altro una riflessione a tutto campo su un genere, la sua alba, il suo mezzogiorno di fuoco, e il suo altrettanto fiammeggiante tramonto. «È solo con C'era una volta il West - nell'anno delle barricate, di Rain and Tears e dei carri armati di Praga - che il cinema western si emancipa una volta per tutte da ogni residua illusione di realismo e prende il posto che gli spetta (al pari della filosofia, direbbe Borges) nella quarta dimensione: il fantastico, la favola, l'epopea. È l'alfa e l'omega. Ma più l'omega che l'alfa (per anticipare la morale, ahinoi, di questa favola o epopea). È cioè una pellicola conclusiva, che segue il culmine di una traiettoria, come un fuoco artificiale che s'alza a razzo nel cielo, segue un'esplosione di colori, poi altre a raffica, suoni, fumo, infine una pioggia di scintille, che a poco a poco si spegne, e poi più niente, è notte, buio e silenzio. This is the End». E ancora: «È la Trilogia del Dollaro che libera con tre passi di danza il western dagli eroi sempre ben stirati e ben educati e ben pettinati, dal romanticume, dalle sciatterie, dai fazzoletti al collo, dagli stivali e dai cinturoni sempre appena lucidati, dai dialoghi sciropposi e preteschi da cattivo romanzo, dalle riprese in studio, dagli indiani di gesso, dalle rocce di cartapesta, dai primi piani profumati di dopobarba. Ma senza Armonica e Franck, senza gli spolverini, senza il tema di Jill e quello di Cheyenne, sarebbe stato tutto inutile: annunciata, la rivoluzione sarebbe stata rimandata (come sempre) a data da destinarsi».

Per certi versi, C'era una volta il West inaugura quello che lo stesso Leone definirà La Trilogia del Tempo, proseguita con Giù la testa e conclusasi con C'era una volta in America. È il tempo americano e in pratica il tramonto di una nazione: finita la frontiera, assaporata e messa in pratica l'idea di esportare e diffondere la democrazia Made in Usa, ciò che alla fine resta è liberismo e proibizionismo che si scambiano le parti fino alla guerra del Vietnam, «la dialettica novecentesca tra libertà e terrore», nota a sua volta Gabutti. Che tutto ciò sia opera di un italiano è ancor più significativo perché Leone, alla fine, oltre a Salgari e all'Ariosto e all'opera dei pupi, ha le sue radici culturali nella commedia dell'arte e i suoi eroi sono «patchwork di caratteri.

Indossano personalità costruite con gli scampoli colorati dei costumi di scena di Sandokan, di Wyatt Earp in Sfida infernale, dei film di Roberto Roberti con Francesca Bertini, del Feroce Saladino»... E senza dimenticare che, su tutto, c'è la musica perché, come diceva Ennio Morricone: «I film di Leone sono opere liriche, grandiose e universali come partiture verdiane».

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