Mentre raggiungo il Museo Storico della Fanteria, a Roma, nel rione Esquilino, rifletto su un pensiero di Leonard Bernstein, forse il più grande compositore d'America: «Un'opera d'arte non risponde a delle domande, le provoca; e il suo sostanziale significato sta nella tensione tra le risposte contraddittorie». Rifletto su questo anche mentre vedo il cartellone della mostra che sto andando a visitare, un rettangolo raffigurante una tela di Paul Lecomte e con su scritto «Impressionisti. L'alba della modernità»: una frase che certo è molto più di una frase, un'intestazione che fa da cornice a un'esposizione memorabile, ospitante oltre duecento tra dipinti, disegni, acquerelli, ceramiche e incisioni, e che sarà aperta al pubblico fino al 28 luglio.
Entrando nel museo ricordo ancora Bernstein, che anche se non fu un pittore con l'Impressionismo ebbe parecchio da spartire, a cominciare da una sorta di estasi per l'indipendenza, dall'esigenza di ricerca istintuale e di conturbante, reiterata attrazione verso il non sistematico, cioè verso il mistero e la sorpresa: tutti aspetti che il musicista legava alla propria arte, meglio ancora a una nuova idea di arte di cui si sentiva autenticamente erede. Perché l'Impressionismo è stato questo: «una rivoluzione dell'atteggiamento dell'artista rispetto alla sua coscienza», come mi ha raccontato qualche giorno prima Vittorio Sgarbi, fra i curatori della mostra, dedicata alla celebrazione dei centocinquant'anni dell'Impressionismo. «Più che una scuola con delle attività è un metodo mentale, è la modernità che s'impone per far diventare gli artisti liberi, per consentire agli artisti la libertà di creare senza nessun vincolo».
Era il 1874 e nello studio del fotografo Nadar, in Boulevard des Capucines, a Parigi, si espose una leggendaria serie di quadri di pittori oggi immensamente amati ma all'epoca osteggiati, causa di scandalo e addirittura di orrore, tanto da essere apostrofati come «schifosi pittorucoli», i cui esiti vennero definiti perfino peggiori di quelli della carta da parati: così nasceva l'Impressionismo, sotto l'egida della derisione, che combaciava però con l'ossimoro della riscoperta, della risemantizzazione delle motivazioni creative, giocate sul potenziale ancora inedito dell'interiorità: un mare magnum che di lì a poco sarebbe esploso (pensiamo alla psicanalisi), e che gli Impressionisti veicolarono ai contemporanei.
«L'Impressionismo non deve fingere nulla» ha proseguito Vittorio Sgarbi, «deve mostrarci quello che l'artista sente, quello che sentiamo anche noi come odori, sapori, colore, luce, quello che stabilisce come un'impressione, che proviamo davanti a un fiume, oppure davanti a un circo o a una sfilata. La capacità di questi artisti è di produrre un'impressione di quello che noi vediamo, un'identificazione delle sensazioni». Si tratta di un punto cruciale, anzi di una vera e propria avanguardia, connessa a una pittura che non riguardava più solo «l'etica, la spiritualità, la realtà nella sua dimensione storica» ha aggiunto Sgarbi, «ma viceversa era la descrizione della vita quotidiana e delle impressioni delle persone, che sentivano che un'opera d'arte produceva un'emozione semplicemente nel rapporto con la natura o con le cose».
Lo stesso sottotitolo della mostra, «L'alba della modernità», traduce quell'avvio esatto, quel cambio di rotta che ci ha traghettati nella società odierna. «In fondo come comincia l'arte moderna? Prima dei cubisti, di Picasso e dei futuristi c'è stato qualcos'altro» ha continuato Sgarbi, «l'arte moderna inizia effettivamente nel 1874, con quei pittori che rovesciarono il senso dell'arte. La mostra tende quindi a dimostrare come l'Impressionismo ha cambiato la sensibilità e ha reso la pittura una testimonianza di emozioni, di esperienze interiori e personali». Un secolo e mezzo fa si verificava dunque quest'Iliade psichica, questo duello esaltante tra sistemi immani: la tradizione del realismo e la scoperta sconfinata dell'io, con la netta vittoria della seconda, che avvenne grazie agli Impressionisti così come al luogo che li ospitava: una Parigi magnetica, screziatissima e vibrante, emblema travolgente dei mutamenti in corso, non ultimo dell'industrializzazione, che avrebbe cambiato per sempre gli equilibri dell'uomo. «Hegel diceva che lo spirito del mondo si sposta» ha concluso Sgarbi, «e nella seconda metà dell'800 quello spirito del mondo dall'Italia arriva a Parigi»: un ambiente che cominciava a fare i conti con l'atmosfera cittadina, ovvero con la perdita del contatto con la natura, non a caso fra i referenti primari dell'Impressionismo, che in questo senso ne descrive il declino, sancendo «la fine di una dimensione di Arcadia», dove il naturale simboleggiava il mito e la poesia. Ciò che questa corrente artistica rappresenta è di conseguenza «l'alba della modernità ma anche il canto del cigno di un mondo perduto», che gli Impressionisti tuttavia salvano e confrontano con quello che sarà il futuro, ossia «il potere delle macchine».
La mostra è dunque primariamente questo: il racconto appassionato di una storia, una storia cruciale dell'umanità da ripercorrere tra i settori che la compongono, divisi con intelligenza a seconda delle personalità pittoriche e delle periodizzazioni del movimento. Le visito una dopo l'altra in compagnia di Vincenzo Sanfo, che insieme a Gilles Chazal e Maïthé Vallès-Bled ha affiancato Vittorio Sgarbi. Sanfo è inoltre colui che ha recuperato una parte di elementi grafici estremamente interessanti, molti dei quali rarissimi, come le incisioni di Jean-Baptiste Camille Corot, realizzate con la tecnica del cliché-verre.
Man mano visioniamo le opere dei celeberrimi Manet, Monet, Degas, Cézanne, Pissarro, ma anche di figure meno note, alcune mai esposte in Italia finora. Sanfo prosegue parlandomi di Courbet, Ingres, Firmin-Girard, Boudin, Bernard. Si sofferma anche su Renoir indicandomi un suo eccezionale pastello, il più grande in assoluto, La Saône se jetant dans les bras du Rhône, portato a termine nella vecchiaia, quando era sfigurato dall'artrosi e lavorava coi pennelli legati ai polsi. Precisa poi che la mostra ospita tutti i protagonisti delle otto esposizioni impressioniste e accoglie i contributi di tre pittrici, tra cui la famosa Berthe Morisot, insieme a una serie peculiarissima di oggetti, scelti anch'essi con una ratio che è avvincente: uno su tutti, il cappello da cowboy che è la replica di quello che Gauguin vide addosso a Buffalo Bill, durante una delle sue esibizioni parigine del 1889, e che lo meravigliò a tal punto da spingerlo a indossarne uno a sua volta.
L'ammaliante universo impressionista è così donato al pubblico in un percorso rinnovato, che fa
comprendere quanto e perché siamo ancora debitori a quel gruppo di pittori, a cui ogni artista successivo deve ancora oggi la propria liberazione, come ribadito da Vittorio Sgarbi, grazie ai quali siamo entrati nella modernità.
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