Mentre trionfano le mostre di Escher e di «Mirabilia estensi» nei rinnovati ed eleganti spazi espositivi è propizio rievocare il percorso faticoso che ha portato al recupero di Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Dal giorno in cui, presentando un libro di Giorgio Bassani, il presidente della sezione ferrarese di Italia Nostra, Andrea Malacarne, mi fece vedere il progetto del gruppo Labics, annunciando una sollevazione di cui io mi feci primo e più radicale interprete. Il tema era centrale, e non poteva non porsi, per uno dei più notevoli ed emblematici monumenti del Rinascimento italiano. Non si trattava di adeguare un palazzo a museo, ma di accogliere il museo in un palazzo.
E si scontravano i principi di chi legittimamente vuole fare architettura moderna e quelli di chi ritiene primario un intervento conservativo, limitando ogni adeguamento. Sembrava che io fossi l'ostacolo principale, avendo rivendicato, al momento in cui ho conosciuto le decisioni del Comune di Ferrara e il progetto dei vincitori del concorso, il primato della conservazione e la responsabilità primaria del ministero nel garantire i principi di tutela. È il tenore della mia interrogazione al ministro. In cui scrivevo tra l'altro: «Si chiede al ministro dei beni culturali di richiamare gli uffici competenti, al di là di indebite pressioni e coperture politiche o utilitaristiche, a vigilare sul rispetto della legge che non consente, e non ve ne sono precedenti, per edifici del valore universale di Palazzo dei Diamanti, in una città del Rinascimento dichiarata patrimonio mondiale dell'Unesco, manomissioni, alterazioni, integrazioni, ampliamenti, che ne compromettano la secolare integrità materiale, come hanno richiamato luminari della tutela come Christoph Frommel, Arturo Carlo Quintavalle, Andrea Emiliani, Eugenio Riccomini, Giuseppe Cristinelli, Vittorio Emiliani, Elio Garzillo, Luigi Malnati, Massimo Osanna, alcuni dei quali sovrintendenti emeriti del ministero dei beni culturali».
Parte anche la petizione dello stesso tenore a cui risponde una simmetrica e dura argomentazione degli architetti, Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori, che chiarisce le loro intenzioni: «Il progetto vincitore è una struttura leggera completamente trasparente e reversibile che si distanzia dall'edificio esistente restituendo trasparenza e la continuità della vista del giardino dalla corte principale del palazzo. Non c'è alcun dato oggettivo per criticare o attaccare il progetto. La petizione promossa dall'onorevole Sgarbi contro il progetto è una petizione di retroguardia che mira a bloccare un'iniziativa che al contrario migliorerebbe un sito museale le cui mostre sono apprezzate in tutto il mondo. Dobbiamo fermare questo ennesimo No, per il bene dell'Italia».
Con stupore di molti e mia soddisfazione per la coerenza della istituzione, il ministero, senza discutere la legittimità delle vittoria del concorso, indicò i punti di inadeguatezza, non creativa ma conservativa, del progetto che appariva meritevole come proposta, evidentemente, ma senza i necessari requisiti che l'edificio nella sua integrità ideale e materiale richiedeva. Come si intende, le due parti erano particolarmente animose. E molti architetti ragionevolmente eccepirono, come è avvenuto, in difesa del centro storico di Firenze, per la pensilina di Isozaki, che non si rispettava l'esito della procedura concorsuale, dimenticando, ancor più nel caso di Ferrara, che la commissione di concorso non sostituiva la competenza specifica della Soprintendenza, che poteva respingere, non autorizzare e chiedere, con misure vincolanti per il committente, la revisione, o l'adeguamento del progetto in autotutela, secondo le indicazioni del ministero attraverso la direzione generale belle arti. Ineccepibile e, direi, inevitabile.
Ma il nemico numero uno restavo io. E qui si è introdotta una variante che ha conciliato le due posizioni. C'è stato rispetto della procedura. In virtù delle prescrizioni, non si è posta in discussione la titolarità dei vincitori del concorso, questione che aveva particolarmente animato Luigi Prestinenza Puglisi, ma si è chiesto loro di agire evitando allungamenti o ampliamenti degli spazi del palazzo, edificati con la finzione umiliante di porsi come un corpo «trasparente e reversibile» dotato di fondamenta. Quando? Perché? C'è stata, pur nelle tensioni, educazione, mettendo a confronto i diversi punti di vista per trovare una soluzione. Il Comune committente, preso atto delle imprescindibili norme di tutela, chiede la revisione del progetto nella direzione da me indicata.
Ed ecco la convergenza che conduce a una soluzione originale che trasforma in risorse le riserve e, tra ira e dispetto, concilia invenzione e conservazione. C'è quindi una più ampia estensione del concetto di cultura che non può essere, se non ingenuamente, limitata al riconoscimento della modernità, che ne è certamente un aspetto relativo a ciò che la creatività esprime nel nostro tempo, definendo uno stile contemporaneo; ma è evidente che «cultura» ha uno spettro più vasto, ed è rispetto dell'integrità dei monumenti storici, come ci sono stati trasmessi, conservazione, restauro secondo regole e principi codificati che lasciano poco spazio alla interpretazione. Palazzo dei Diamanti, nella sua unità compositiva anche frammentaria, non ammette estensioni e allargamenti, ma, dopo il restauro delle sue forme e dei suoi spazi, può prevedere una passerella distaccata dal corpo dell'edificio, di apparenza provvisoria, di legno combusto, legno di accoya bruciato o carbonizzato. Essa si sviluppa oltre il cortile dietro una cortina di piante e si inoltra nel vasto prato erboso mosso da uno specchio d'acqua, disegnato da Stefano Olivari.
Questa fase di nuovi interventi ha consentito la restituzione completa del giardino, grazie a nuove piantumazioni, e la sistemazione integrale del prato, intorno allo specchio d'acqua, in un sistema di percorsi in calcestre che richiamano i tracciati del percorso dell'antico frutteto. Una soluzione rispettosa, innovativa, suggestiva, e assolutamente originale; non un corpo aggiunto reversibile, ma un corpo trasparente e separato, in una ariosa composizione che prolunga Palazzo dei Diamanti nel parco retrostante, lasciando inalterato il nucleo storico. Dal prato del cortile al parco con la vasca d'acqua, con il diaframma del muro sul fondo che, su mia sollecitazione, nell'interludio da sottosegretario alla Cultura, la Soprintendenza ha lindamente restaurato con il contributo della Direzione generale Belle Arti.
I progettisti hanno convenuto sulla necessità del corpo separato, accogliendo le mie riserve che avevano dato origine al contenzioso. All'interno semplice e rigorosa è la sequenza iterativa delle sale per esposizione, con la conservazione dei pavimenti di cotto nell'ala Tisi, e la messa in opera del terrazzo veneziano nell'ala Rossetti, realizzato con inerti in marmo bianco Thassos e frammenti di cocciopesto per dare al legante un colore bianco caldo. Tutte le sale sono state dotate di fodere altamente tecnologiche e ad alta resistenza, dietro le quali stanno le dotazioni impiantistiche, che hanno un impatto minimo sul monumento. Le nuove superfici rivestono e proteggono le murature antiche e celano gli impianti per garantire le prestazioni richieste a uno spazio espositivo contemporaneo. In entrambe le ali, sono stati inseriti nuovi portali in ottone brunito che accentuano la sequenza ritmica degli ambienti propria dei palazzi rinascimentali. Durante i lavori è riapparso un «bagno estense», restaurato e rimesso in luce, visibile nel percorso di visita.
Nel contrasto di due posizioni apparentemente inconciliabili, in una reciproca resistenza, è uscito, grazie al pugnace e tenace
impegno dei progettisti, e alla mia difesa dei principi della tutela, un risultato esemplare nella storia degli interventi su un palazzo storico destinato a una moderna funzione espositiva, che non lo umilia ma lo esalta.
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