Così vicini in aula e mai così distanti

Sguardi torvi e sconsolati tra i fondatori del Pdl. Nel giorno del compleanno del Cavaliere, il presidente della Camera: "Fare gli auguri ai deputati non rientra nelle prerogative del presidente"

Così vicini in aula e mai così distanti

Roma - Il sorriso a Gianfranco non viene bene. È una smorfia forzata, come di chi sta dicendo al mondo: guardate come rido. Sembra una vecchietta un po’ acida, si vedono solo i denti davanti, gli occhiali con la montatura trasparente, lo sguardo poi cade sulla penna che sfiora il foglio bianco. Fini sta fingendo di scrivere qualcosa. La frase di Berlusconi. Questa: «La mia stessa indole personale mi porta a cercare l’intesa...». È proprio adesso che Fini sorride, con la consapevolezza che tutti dovranno guardarlo, e dai banchi di Montecitorio si sente un drappello di voci pronunciare la parola proibita: Montecarlo. Fini sorride sullo sfondo di Montecarlo.
L’indifferenza è faticosa da indossare. Questo è il giorno in cui, in qualche modo, Berlusconi e Fini devono guardarsi in faccia. È il giorno del «che si fa». Sono anni che tra i due la questione non è affatto politica. È un’affare di pelle, di gesti, di toni, di parole, di viscere e sentimenti. Quando Fini si mette la matita in bocca Berlusconi sta pensando: che schifo. Ogni parola del premier per il presidente della Camera è vuota. È aria. Fini non sopporta la maschera di Berlusconi. Il Cavaliere vede in quel fisico da falso magro il segno del tradimento. L’unica cosa che ormai lega questi due uomini è una feroce antipatia. Solo che in questo 29 settembre gli tocca di stare qua, a scrutarsi da troppo vicino, facendo finta che nulla leghi l’uno all’altro. Il guaio è che devono convivere. Non più nella stessa casa, ma purtroppo ancora nel medesimo condominio.
Si comincia. Sono passate da un po’ le dieci del mattino. Tremonti si siede alla sinistra del premier. Bossi batte il solito pugno sulla spalla di Berlusconi che risponde mostrando il destro. È tutto pronto, manca il presidente. Fini si è preoccupato di entrare per ultimo. Mediocre soddisfazione. Il discorso del Cavaliere parte lento. Fini lo ignora. Passerà la mattinata a inviare sms. Bruno Vespa in tribuna prende appunti. Bocchino chiacchiera con Menia. Bossi sbadiglia. Fini gioca con la matita. Berlusconi mette la fiducia sul tavolo. Fuori in Transatlantico ci si interroga sul futuro di Fini. Troppi ingenui sono convinti che Gianfranco farà il partito e si dimetterà da presidente della Camera. Naturalmente è solo una mezza verità. Bonaiuti si avvicina a Berlusconi e sussurra che Fini farà il partito. Il premier prende l’agenzia e si mette a scrivere una serie di bigliettini.
Fini non si dimette da presidente della Camera. Non gli passa neppure per la testa. Non è Natale e non fa regali. Si è capito che Fini resta convinto di essere un uomo tutto d’un pezzo anche se gli casca in testa una cucina. Quando i cronisti gli chiedono se ha fatto gli auguri di compleanno a Berlusconi, la risposta puzza di Costituzione: «Fare gli auguri ai deputati non rientra tra le prerogative del presidente...». Risatine alla buvette. Sorpresa: è anche il compleanno di Bersani.
Pausa. Fini ha una riunione finiana a Farefuturo. Ci sono tutti i Fli, falchi e colombe. Ci sono un paio di cose da comunicare. Facciamo il partito. Votiamo la fiducia (Barbareschi, Granata e Tremaglia la prendono male). Avete visto come ho riso in faccia a Berlusconi? Questa storia della risata a Fini deve piacere parecchio. La fa notare in ogni discorso e costringe perfino Bocchino a ripeterla in Aula. Fini come Franti, il cattivo di De Amicis. A Berlusconi non resta che fare il primo della classe. Tutti si sforzano, dopo la tempesta, di respirare un’atmosfera da libro Cuore. La parola d’ordine è che bisogna stare tutti insieme con le gambe accavallate: un, due e tre. Una è di troppo.
Il pomeriggio si fanno i conti. Fini e Berlusconi continuano a ignorarsi. Solo che si mette in mezzo Di Pietro. La tirata contro Berlusconi sembra fatta apposta per mettere in difficoltà il presidente della Camera. Che faccio, intervengo o non intervengo? Tonino chiama ossessivamente il premier «imputato Berlusconi». Quando lo accusa di «stupro della democrazia», l’arbitro di malavoglia fa un fischio sfiatato. «Onorevole la invito a usare un linguaggio più consono». Di Pietro, naturalmente, continua a dipietreggiare. Berlusconi guarda Fini, poi allarga le braccia, come a dire: fai qualcosa. Fini scuote la testa: sono appena intervenuto.

Sguardi torvi. Il premier si siede e fa un gesto con la mano: ma cosa te lo chiedo a fare. Non c’è neppure più rancore. L’unica certezza di Berlusconi in questa giornata è che con Fini non vale nemmeno più la pena litigare.

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