"Cosa fa il vero traduttore? Regala voci autentiche"

L'uomo delle lingue che ha aiutato tanti Vip, da Ronaldo a Bono, racconta il suo mestiere: l'intervista a Paolo Maria Noseda

"Cosa fa il vero traduttore? Regala voci autentiche"

Sempre un passo di lato, con un quaderno in mano sul quale trasformare in tempo reale dei simboli in un discorso compiuto. Paolo Maria Noseda è l'uomo discreto che accompagna artisti, sportivi, politici e tanti altri Vip globali a diventare comprensibili in italiano. Traduttore simultaneo sarebbe troppo poco: è un interprete dei sogni, un artista della parola. È soprattutto un marchio di fabbrica, perché appena ascoltate la sua voce potete ricollegarlo ai volti più noti, che sia in una conferenza dal vivo, a Che Tempo Che Fa di Fazio, al Calendario Pirelli di cui è interprete ufficiale da tanti anni. Paolo Maria Noseda è la voce delle persone importanti: «Il mio mestiere è soprattutto passione, cominciato un po' per celia e soprattutto per non morire».

Quando?

«La mia famiglia era girovaga e di provenienza mista: spagnoli e ungheresi sefarditi da parte di padre, super cattolici austriaci e svizzeri da parte di mamma, che di cognome si chiamava Bellesini. Tanto per chiarire: a Trento è veneratissimo il Beato Stefano Bellesini, che aprì il primo rifugio per ragazze madri. Quando vado lì mi toccano come fossi un santino, e io rispondo che sono la pecora nera della famiglia».

Cos'è successo?

«In gioventù volevo fare il medico, pensavo di voler aiutare l'umanità. Poi, un bel giorno, mi sono detto: ma tu hai il coraggio di vedere una persona che muore? La risposta era no».

E dunque ecco le lingue.

«Vista la provenienza ero portato: parlo italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco. Poi ho studiato un po' di arabo e un po' di cinese, ma queste per capire come funzionassero. Mi ero accorto, quando lavoravo all'Onu, che le delegazioni cinesi non capivano l'inglese anche se non lo dicevano. Sapere il loro idioma mi ha aiutato a tradurglielo in maniera semplice».

Com'è arrivato all'Onu?

«Con l'incoscienza dell'adolescenza. Avevo fatto gli studi classici, però ho finito in anticipo. Un giorno dissi a mio padre che volevo girare l'Europa: lei capirà, ci eravamo trasferiti dalla Svizzera perché lui doveva mettere a posto un'acciaieria della Falck a Dongo. Il paesino noto per Mussolini, che era appunto un paesino».

Dove andò?

«Allora non c'era l'Erasmus, però fui uno dei primi studenti a fare gli scambi internazionali, con un'altra francese disgraziata come me: finimmo in Inghilterra. E poi fu lo stesso alla Sorbona di Parigi. E nel frattempo ero costretto a lavorare per mantenermi».

Da cosa ha cominciato?

«Nelle università inglesi c'era un ufficio di collocamento per studenti, sono finito nei magazzini durante le svendite o nei distributori di benzina la sera. E poi in Francia a Digione durante le vendemmie. Sono stato messo a contatto con la vita, che è quello che un interprete deve imparare a capire. L'Inghilterra, comunque, è stato il posto dove ho allargato la mia cultura».

In che modo?

«Ai tempi, era il 1975, se studiavi lì lo Stato non ti faceva pagare le tasse universitarie e ti dava una tessera che permetteva di pagare solo il 10% del biglietto di musei, librerie ed anche delle piscine. Poi c'era la borsa di studio...».

Il primo lavoro da interprete?

«In quella che si chiamava allora Comunità europea. Ma in realtà il primo lavoro assoluto fu per una riunione a Milano per commemorare l'architetto Franco Albini: c'era il gotha del design, e tutti con la puzza sotto il naso. Un impatto scioccante che mi ricordo ancora oggi. Poi, in realtà, negli anni ho lavorato tantissimo con Achille Castiglioni e molti altri che invece sono stati come dei padri per me».

Poi è arrivato anche il lavoro come ghost writer.

«Quello col tempo e con l'esperienza. Ho collaborato con scrittori Premi Nobel, scienziati, attori, grandi personaggi: sono stato molto amico di Carla Fracci, tanto che ai suoi funerali il marito ha voluto che tenessi io il discorso ufficiale».

Come si entra in sintonia con una celebrità?

«Il mio lavoro è fatto di parola, ma anche di tanto ascolto. Studiando le persone e andando a cercare tutte le cose possibili: per fortuna ora c'è internet. Dopo tanti anni riesco anche a suggerire come esprimersi in certi contesti. Per esempio, agli scrittori faccio capire che saper pubblicare un libro non è uguale a parlare in pubblico».

E i simboli a cosa servono?

«Non è come la stenografia, si impara a tradurre le idee di una persona e a trasformarle velocemente in pensieri che abbiano una conseguenza. Le lingue hanno strutture diverse, se resti collegato alla grammatica come faresti a usare lo stesso metodo in tedesco o in spagnolo? Il discorso è basato sulla memoria e poi sui simboli che ognuno personalizza».

Qualche personaggio a cui è particolarmente affezionato?

«Il mio è un lavoro di empatia e generalmente riesco a conquistare la fiducia dei miei clienti. Ho seguito una regola che ha insegnato Patti Smith: Remember! mi disse - You have to be true to yourself. Insomma, devi essere autentico, e io ho cercato sempre di esserlo. Anche perché le persone geniali che incontro spesso lo sono».

Per esempio?

«Con Bono degli U2 sono molto amico: è una persona davvero speciale, con cui chiacchierare è fantastico. Sa scrivere concetti efficaci in modo semplice, che poi è proprio la qualità del genio. E poi credo che sia la persona che conosce meglio di tutti la politica italiana».

Una bella soddisfazione.

«Io posso stare dieci minuti con una persona e creare un legame che resta. Recentemente ho lavorato con Whoopy Goldberg a distanza di 5 anni dall'ultima volta, e lei si ricordava perfettamente di me. Poi c'è Steffi Graf».

L'ex tennista: com'è da vicino?

«Una persona eccezionale: fosse per me la nominerei Presidente degli Stati Uniti. Anche se non potrebbe ora, nonostante sia naturalizzata. Ma magari in futuro...».

E i meno empatici?

«Potrei dire alcuni calciatori: di solito sono molto giovani e si trovano catapultati in un mondo che non capiscono. Una volta dovetti affiancare uno spaesatissimo Cristiano Ronaldo: eravamo in uno studio legale in cui si doveva decidere anche il taglio di capelli e i gadget che doveva indossare, e invece lui voleva solo giocare a pallone. Nelle prime conferenze stampa parlava a monosillabi».

Come ha risolto il problema?

«L'ho preso da parte, gli ho spiegato qualche trucchetto, tipo che ti chiedono del colore rosso e tu non vuoi rispondere cominci a parare del giallo. Ha funzionato. Tra l'altro con il calcio ho fatto una delle mie peggiori gaffe».

Ovvero?

«Anni fa ero appena tornato dalla Germania e mi chiamarono in Rai per l'arrivo di un calciatore tedesco a Roma. Tutti in fibrillazione, io traduco dicendo sono contento di giocare per il Roma: sono arrivate centinaia di messaggi del tipo portatelo via, uccidetelo. Me la sono cavata dicendo al mio direttore che mi desse una regola: perché si dice il Milan e, invece, la Roma?».

C'è qualcuno che l'ha fatta spazientire?

«Io parto sempre con molta calma con un'idea molto chiara: il cliente c'è oggi ma non c'è più domani. Al massimo penso che tanto mi pagano lo stesso ed è inutile arrabbiarsi. Poi spesso qualcuno che sembra antipatico è solo stanco: tipo gli attori mandati in giro per il mondo a promuovere il film e magari appena atterrati. Mi è capitato che mi chiedessero: Ma dove sono?».

Qual è il futuro del traduttore nell'era dell'intelligenza artificiale?

«Io non sono contrario al progresso: insegno all'università e non sono di quelli che vieta di usare i dispositivi tecnologici. Però i testi vanno capiti, si deve andare a cercare i sinonimi giusti, scegliere le parole che servono a far capire meglio il discorso. E fare fact checking».

Essere interprete sarà sempre diverso che fare il

traduttore.

«Certo, il nostro futuro è nelle lingue rare. Bisognerà trovarsi delle nicchie, sapendo però che una macchina non avrà mai la passione per la cultura e la conoscenza. E soprattutto la nostra curiosità».

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