Chi conosce il mare, sa che il mare è sempre stato una grande, meravigliosa scuola di libertà e di avventura, ma sa anche che affrontarlo ha sempre comportato un pericolo, un rischio mortale. Il mare non ci è amico. È indifferente ai nostri sentimenti e ai nostri lutti. Oggi si tende a sottovalutare la forza disumana del mare e a pensare che un naufragio sia qualcosa che appartiene a tempi lontani. A luoghi lontani.
E invece ecco che nel cuore del nostro tempo, a due passi da noi, un gigante come la Costa Concordia può aprirsi nella fiancata vicino alla poppa con uno squarcio di settanta metri, e può cominciare a imbarcare acqua e ad abbattersi lentamente ma inesorabilmente sino a giacere su se stessa come un cavallo azzoppato. Non c’è potenza di motori, non c’è stazza, sequenza di ponti che tenga. Il mare è più forte. Inghiotte chi lo sfida senza perizia, senza rispetto. O anche semplicemente senza fortuna. Chi può immaginare una rotta più tranquilla di quella che va da Civitavecchia a Savona? Un mare da traghetti, che tutti abbiamo visto imbarcandoci a Olbia o a Piombino, tutto costellato di isole, domestico, che sembra di stare a casa. Ma nessun mare è così.
La Costa Concordia viaggiava con le migliori condizioni meteorologiche, senza che all’orizzonte si profilasse nessuna tempesta, senza che soffiasse nessuno di quei venti che possono picchiare duro sul Tirreno. L’insidia non è venuta dall’alto, ma dal basso. Ancora più oscura. Scogli con cui la nave ha una collisione in piena notte. Come giusto cento anni fa successe al Titanic con un iceberg, dando vita a una leggenda che approda al film di James Cameron e che non accenna a perdere il suo strano fascino apocalittico. Ogni naufragio è in sé una piccola apocalisse, la fine di un viaggio, di un sogno, oltre che di tante vite. Da lì assume tutto il suo carico di angoscia e di tragedia, ma anche la sua potenza simbolica. Un tempo, sino a quando l’uomo sapeva di sfidare nel mare una entità ostile, non si parlava per chi sta a bordo di passeggeri e di uomini dell’equipaggio, ma più semplicemente di «anime». Da lì Sos è stato poi letto come «save our souls » .
Erano 4229 le anime a bordo del Costa Concordia, l’altra notte. Una enormità. E a noi dalla terraferma riesce difficile immaginare il panico di quelle anime quando nei saloni da pranzo si fa buio, i bicchieri sui tavoli cominciano a scivolare e a cadere, sei fischi brevi e uno più lungo dicono la certezza che bisogna evacuare la nave, e le prime scialuppe vengono calate in acqua. Il passaggio dalla festa alla tragedia è immediato, senza il tempo di prepararvisi. Dalle luci, dai vini, dalle risate alle urla di disperazione. Niente sembra sicuro come una meganave, che è più di un albergo galleggiante, è una intera città posizionata sul mare, una città artificiale e a misura del relax e del divertimento. E niente più spensierato di una crociera, la vacanza di massa divenuta così popolare in questi anni. Il naufragio riafferma di fronte a tutti che il mare non è un luogo di vacanza, o che lo è solo per gli smemorati e i troppo fiduciosi.
In ogni naufragio, certo, ci sono errori, debolezze, inadempienze che possono essere attribuite alla responsabilità di un comandante e di un equipaggio. Tra i marinai raccontati da Joseph Conrad, il massimo cantore dei drammi della navigazione, Lord Jim nell’omonimo romanzo porta con sé la pena e il disonore dell’aver abbandonato la sua nave in difficoltà, e il capitano MacWhirr in Tifone , che non abbandona la nave, la riduce a un rottame pur di vincere la sua sfida con la più terribile delle tempeste. Altre storie, altri uomini. Ma anche oggi, al tempo delle meganavi e delle crociere di massa, col naufragio il mare riprende il suo diritto ad essere temuto e visto come una forza vivente, seducente e rovinoso come le maghe bellissime e ostili, Circe, Calipso, le Sirene, incontrate dal primo naufrago della storia dell’Occidente, Ulisse. Niente ci restituisce il senso del mare in tempesta più del canto V dell’ Odissea ,che ci mostra Ulisse nuotare tra la furia di onde e vento. Anche la Bibbia negli Atti degli Apostoli ci racconta con stupenda evidenza un naufragio, quello di San Paolo a Malta durante il viaggio che lo portava prigioniero a Roma. E molti secoli dopo, in Inghilterra, quando nasce il romanzo come espressione della nuova mentalità e del nuovo spirito borghese, ci sono proprio due naufragi all’inizio della storia fantastica di Lemuel Gulliver, che finisce a Lilliput nel romanzo di Jonathan Swift e di quella realistica di Robinson Crusoe, finito alle foci dell’Orinoco nel romanzo di Daniel De Foe.
Altri naufragi nella storia sono rimasti vivi per i bagliori sinistri e atroci dei fatti avvenuti tra i superstiti, come quello della «Batavia», grande mercantile olandese del Seicento, documentato da un libro di Mike Dash, e quello della «Medusa», veliero francese dell’Ottocento, illustrato magistralmente da un quadro di Géricault. Il vecchio Francisco Coloane, scrittore di cose di mare, in un suo libro intitolato proprio Naufragi ci racconta i più significativi tra i 1500 avvenuti soltanto sulla costa cilena.
Guardando oggi la chiglia della Costa Concordia, incagliata, abbattuta, sconfitta, contro il faro del porto dell’isola del Giglio, ci penso,a tutta l’infinita lotta che l’uomo ha sostenuto con il mare.
Credersi vincitore, per ciascuno dei due, è un abbaglio. Il mare è ancora lì, come nei versi di Baudelaire, caro agli uomini liberi e in eterna lotta con loro, implacabile fratello.
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