La crepa del Crack si riapre in una mostra

Un gruppo di otto artisti decise di rompere con gli schemi delle correnti più o meno politicizzate di un'epoca contraddistinta dall'antitesi tra figurazione accademica e informale

La crepa del Crack si riapre in una mostra
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Crack, in inglese, significa crepa. E una crepa è quella che aprì nell'arte italiana nell'agosto del 1960, allorché un gruppo di otto artisti decise di rompere con gli schemi delle correnti più o meno politicizzate di un'epoca contraddistinta dall'antitesi tra figurazione accademica e informale. Gli artisti della (breve) stagione del gruppo Crack vengono oggi raccontati con dovizia scientifica negli spazi della galleria Gracis di piazza Castello 16, in una mostra non a scopi commerciali, a ennesima dimostrazione di come nella nostra città molte gallerie portino avanti progetti di significativo impatto culturale.

Suggello dell'operazione è la storica dell'arte Laura Cherubini, che cura la mostra sulla falsariga di quella storica esposizione organizzata alla Galleria Il Canale di Venezia nell'agosto 1960, testimoniata dalla pubblicazione di un volume edito dalla casa editrice Krachmalnikoff che faceva capo ad Achille Mauri, fratello dell'artista Fabio. Proprio in quel volume vennero declinati lo spirito e la poetica del gruppo che racchiudeva al suo interno nomi ben noti alla storia dell'arte come Pietro Cascella, Piero Dorazio, Gino Marotta, Fabio Mauri, Gastone Novelli, Achille Perilli, Mimmo Rotella e Giulio Turcato, a cui si aggiungeva il poeta e critico Cesare Vivaldi. Questo progetto, dichiararono gli artisti, «lo abbiamo ideato e concepito come una protesta contro l'accademismo che domina l'arte italiana, i santoni che la governano ed i tabù da essi imposti». La mostra proposta dalla galleria Gracis rappresenta un'occasione preziosa per aprire uno squarcio, attraverso opere e materiale d'archivio, su questo affascinante e particolarissimo periodo del dopoguerra artistico italiano, che rivendicava pura autonomia formale in aperta polemica con l'arte dominante.

Per l'occasione viene presentato un catalogo, edito da Manfredi Maretti, in cui è inclusa anche la copia del catalogo del 1960. I testi, corredati dall'analisi critica di Cherubini, aiutano a tessere le fila di un gruppo certo eterogeneo (dall'arte cosiddetta programmata al neodada) ma riassunto nell'anelito della libertà del gesto e del progetto artistico. Superare l'informale scrive Cherubini - divenne un'esigenza sempre più sentita. Le modalità di reazione sono varie, c'è una sorta di neosurrealismo senza grande ricerca di innovazione linguistica. C'è l'arte programmata e cine-visuale che conta di collaborare con la produzione industriale.

C'è una tendenza che mette al centro la realtà oggettuale, la città e la scena urbana. Così soprattutto a Roma si tende all'azzeramento, al grado zero della pittura, il monocromo, ma è paradossalmente proprio da lì che si riscopriranno segni e segnali dell'iconosfera urbana.

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