di R. A. Segre
Dopo tre ore trascorse alla Casa Bianca di cui una e mezza a quattr’occhi col Presidente Obama la crisi provocata dalla decisione di Netanyahu di continuare a costruire alloggi alla periferia di Gerusalemme Est (e in una casa di antica proprietà ebraica nel quartiere arabo di Sheik Jerrah dove nel 1947 i palestinesi sterminarono sotto gli occhi degli inglesi un convoglio medico ebraico) resta insoluta e grave.
Non è la prima e la peggiore fra i due Paesi perché avviene in condizioni differenti dalle precedenti. Ad esempio non è l'ultimatum dato da Eisenhower a Ben Gurion del 1956 di ritirarsi dall'Egitto; non è la «revisione» dei rapporti minacciata da Kissinger nel 1975 che obbligò Rabin a evacuare il Sinai; non è neppure la minaccia di cancellare la copertura dei crediti nel 1991 se non fosse mutata l'occupazione della Palestina. È una crisi fastidiosa per ambo le parti che l'incontro di martedì pomeriggio fra Obama e Netanyahu ha aggravato, sia per la difficoltà reciproca di salvare la faccia sia perché gli americani non credono alla buona fede del premier israeliano.
Vediamo dieci ragioni per cui Netanyahu manterrà una linea di «schiena diritta» nei confronti della Casa Bianca.
INSOSTITUIBILE
Per Obama ha dimostrato incompetenza e debolezza nella guida del carrozzone indisciplinato della sua coalizione governativa e resta debole ma, al momento, non c'è nessuno che possa sostituirlo. Netanyahu non sembra particolarmente turbato anche se l'opposizione in Israele grida al disastro.
VOLONTÀ DI COSTRUIRE
È convinto del buon diritto di costruire a Gerusalemme, come hanno fatto tutti i suoi predecessori dal 1967, fuori dalle zone urbane arabe.
RAGIONI DI POLITICA INTERNA
Opponendosi a Obama si rinforza all'interno del governo, anche se non necessariamente all'interno del Paese, che teme lo scontro con l'America.
UN MODO PER «SMARCARSI» DA WASHINGTON
La crisi gli dà visibilità internazionale, dimostra che Israele non è un «servo dell'imperialismo americano», vanifica l'accusa dei liberal statunitensi di essere «la coda che fa muovere il cane americano», responsabile degli errori di Bush.
SIMPATIA DELL’OPINIONE PUBBLICA AMERICANA
Sa che, per il momento, 8 americani su 10 simpatizzano per Israele, di disporre di largo sostegno al Congresso e al Senato dove Obama ha ancora bisogno dei voti degli amici di Israele in vista delle prossime elezioni di «mid term» e per l'approvazione di altre grandi riforme: quella delle banche e di Wall Street, delle infrastrutture di comunicazione, dell'educazione.
SCETTICISMO SULL’INFLUENZA DELLA CASA BIANCA SUGLI ARABI
Netanyahu - e con lui tutto Israele - non crede che Obama sia in grado di strappare qualsiasi concessione araba nei confronti di Israele.
È FINITA L’EPOCA DEI REGALI
Dopo l’evacuazione di Gaza, trasformata in base di attacco da Hamas, non intende più cedere senza ricevere.
DEBOLEZZA DI ABU MAZEN
È convinto che Abu Mazen sia obbligato a massimizzare le richieste nei confronti di Israele, perché è alla testa di un Olp ideologicamente e militarmente più debole di quello di Arafat e con il 40% dei palestinesi sotto controllo dell'avversario Hamas.
FRAGILITÀ DELL’AMERICA
Soprattutto non crede più all'America come superpotenza, convinto della sua fragilità economica, morale e politica. Non teme punizioni economiche americane o europee grazie alla nuova solidità finanziaria e - nel prossimo futuro - energetica del Paese grazie alla scoperta e al rapido sfruttamento dei depositi sottomarini di gas di fronte a Haifa.
INTERDIPENDENZA E NUOVI EQUILIBRI
È convinto del bisogno che Washington ha della collaborazione di Israele nella crisi con l’Iran, e allo stesso tempo cerca di spostare il più rapidamente possibile il baricentro politico israeliano verso est, con una più stretta collaborazione con la Russia e la Cina.
Avendo compreso e ammesso la necessità di Israele di convivere con uno Stato palestinese, non abbandonerà questa posizione nonostante la pressione dei coloni.
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