Antonio Socci «Ti hanno messo al rogo come la strega, l'eretico!», mi ha preannunciato ieri mattina un amico. Ma no, erano solo le reazioni stizzite, sui giornali, di alcuni ciellini (di vertice) al mio articolo su Don Chisciotte. Altri si sono divertiti e me l'hanno scritto. Non conosco invece la Testa Giuditta che ieri sul Foglio ha sparato a zero contro di me. Mi è simpatica e sono certo che esista veramente. Nessun uomo libero si nasconde dietro l'anonimato o dietro pseudonimi o nomi altrui. Io firmo sempre col mio nome le cose (fossero pure bischerate) che penso. E pazienza se ieri Luigi Amicone sul Corriere insinua che io critichi Don Chisciotte per ordire un nefando complotto interno a Cl. Rispondo: non c'entro nulla con i corridoi che frequenta il mio amico Gigi, né mi piacciono quei pettegolezzi; lascio a lui dunque interpretare gli attacchi obliqui e le lotte fra di loro. Gli voglio bene anche se dice baggianate. Io mi sono preso solo la libertà di sorridere dell'ingenua mitizzazione di Don Chisciotte, precisando che il titolo del meeting invece è bellissimo. È una libertà che ho imparato innanzitutto da don Giussani e che lunedì ho riascoltato dal mio splendido amico Julian Carron. «Libertà» è il clima che ho respirato nell'ambiente in cui sono cresciuto: Comunione e liberazione. La nostra giovinezza è fiorita lì proprio per questa curiosità di scoprire e capire, con il gusto e la passione di rischiare se stessi, di confrontarsi senza pregiudizi, di ascoltarsi con simpatia, magari di sbagliare e perfino di mettersi in discussione o avere idee diverse sulla letteratura (per esempio sul Don Chisciotte) e addirittura sul calcio. Mentre i nostri coetanei politicizzati vivevano in un'atmosfera settaria e dogmatica e arrivavano a odiarsi per la loro diversità di posizioni (Fgci contro Ms, Lotta Continua contro Il Manifesto, trotzskisti contro stalinisti), io incontrai una compagnia di uomini appassionati che amavano la libertà altrui, che non guardavano in cagnesco come un Nemico da detestare o un Traditore da infamare chi - poniamo - preferiva Mozart a Beethoven o chi si appassionava alla Scuola di Francoforte o a Pasolini o criticava «Don Chisciotte» (libro che - peraltro - non ho mai sentito citare da don Giussani, che pure è stato sempre prodigo di spunti letterari). La libertà non è un pericolo. Don Giussani amava dire che c'è solo una parola degna di stare accanto alla parola Dio: la libertà. E ricordava i bei versi di Péguy che fa dire a Dio: «Tutte le prosternazioni e le sottomissioni del mondo non valgono il bell'inginocchiarsi diritto di un uomo libero./ Cosa non si farebbe per essere amati da uomini simili!/ Non hanno paura di contrariare nemmeno il re, nemmeno il santo./ Quando parlano si sa che parlano così come sono. E che dicono quello che pensano./ Cosa non si farebbe per essere amati da uomini simili!». Carron nella bellissima lezione di lunedì diceva: «La libertà oggi è un bene tanto prezioso quanto scarso. Basta domandarsi quanti uomini veramente liberi conosciamo. Ci troviamo di fronte a un desiderio enorme di libertà, ma allo stesso tempo all'incapacità di essere veramente liberi, cioè noi stessi, nella realtà». Quanto è vero! E per cominciare a essere liberi Carron non ha certo indicato come modello Don Chisciotte. Anzi, non l'ha neanche rammentato una volta. Perché è uno dei «tanti che fuggono nell'immaginazione», dice Carron invitando invece a seguire don Giussani: lui ci ha insegnato a tenerci alla larga da tutte le utopie, a diffidare dei sogni e dei teoremi ideologici. Apro uno dei suoi ultimi libri e leggo il titolo di un capitolo: «L'importante è la realtà». Vado oltre e leggo il titolo della prima parte del volume: «Il primato della realtà». È piena di attrattiva, di bellezza, di domande e di dolore, la realtà. Porta all'infinito. È lei che ci rivela a noi stessi. Giussani ci ha insegnato ad avere il coraggio di essere noi stessi. Dunque dovremmo temere di dire la nostra sulla mitizzazione di don Chisciotte fatta al meeting? Dovremmo negarci la libertà di discutere di letteratura? Segnalo peraltro che la libertà sarebbe pure il tema (bellissimo) del Meeting. E allora perché non riconoscere che è stato ingenuo trasformare Chisciotte in un simbolo da imitare? Del resto se ne sono accorti tutti. Infatti già ieri, fingendo di polemizzare con me, dal Meeting facevano una rapida retromarcia. Luigi Amicone sul Corriere lo rinnega addirittura come eroe del Meeting (dopo che Tempi e Tracce gli hanno dedicato un paginone e il Meeting lo spettacolo di esordio). Luca Doninelli sul Giornale, pur fingendo di credere che il Meeting sia stato riconosciuto infallibile da qualche concilio e che quindi si deve lasciare Don Chisciotte come «simbolo», propone di declassarlo da ammirabile eroe a cretino da compatire. Renato Farina su Libero insinua perfidamente che Carron «è spagnolo come l’eroe che non piace a Socci», ma non spende una parola in sua difesa. Giuditta Testa sul Foglio per lanciarmi un insulto sanguinoso mi chiama «donchisciottesco» finendo così per abbracciare la mia idea (negativa) del Chisciotte. Resta solo Davide Rondoni su Avvenire a ritenerlo ancora «un grande cavaliere», ma ne ha tutto il diritto. Va bene così. Non sarò certo io a sferzarlo per questo con un corsivo come lui ieri ha fatto con me. Io stimo Davide, che è pure un buon poeta. Oggi però arriva al Meeting Giuliano Ferrara che è uno strenuo ammiratore di Don Chisciotte e che tenterà di risollevarne le quotazioni in picchiata. Ferrara (un mio amico, ma grazie a Dio non ancora leader di Cl) ama proprio la teatralità del Chisciotte pazzo, il suo solipsismo, le fole che gli riempiono la testa. Eppure Chisciotte è proprio un simbolo della «dittatura dei desideri» da cui Ferrara ci mette in guardia dai tempi del referendum. Infatti è un falso Cavaliere medievale: è la caricatura che Cervantes compie nel Seicento di chi faceva il verso ai cavalieri medievali abbindolato da brutti romanzi d'avventura. Cervantes è come uno che - dopo aver fatto il '68 - da vecchio coglie il lato tragicomico di quell'utopismo. C'è chi ha paragonato il Don Chisciotte che sogna di essere Amadigi ai giovanotti che sognavano di diventare Che Guevara o, oggi, in versione innocua, Pietro Taricone. Naturalmente ognuno è padrone di amare Don Chisciotte o imitarlo, ma per quanto ne so io non è mai stato fra le passioni letterarie di don Giussani o di Cl, né fra i simboli positivi come Cavaliere cristiano. L'artista contemporaneo di Cervantes che invece straripa nella storia di Cl e di Giussani è piuttosto Michelangelo Merisi da Caravaggio. Sono i suoi capolavori che corrispondono meravigliosamente all'intuizione del cristianesimo di don Giussani: non la nostalgia di un passato cavalleresco, sia pure nobile, ma lo stupore di quello che sta accadendo nel presente. Caravaggio è geniale perché rappresenta Gesù proprio come una persona in carne e ossa che si può incontrare adesso, in questo preciso istante, che entra nelle buie taverne della sua Roma seicentesca (la Vocazione di Matteo), un uomo risorto veramente nella carne a cui è possibile mettere le dita fin dentro le ferite (la grandiosa «Incredulità di Tommaso»).
Ciò che frega tanti laici (come il mio amico Ferrara) è lo spiritualismo e il fideismo. Invece il cristianesimo è carne, è realismo, è razionalità e stupore, è occhi per guardare e mani per toccare. È resurrezione della carne. Non è sogno. Antonio Socci www.antoniosocci.it- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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