Sul tetto di una casa di Teheran, una donna, con le mani alla bocca, urla il proprio dissenso al risultato delle elezioni che, nonostante unaccusa di brogli elettorali, ha decretato la vittoria di Ahmadinejad. È listante dopo lufficializzazione dellesito ma, soprattutto, è quello prima di una serie di violenze che insanguineranno la città per giorni, quello ritratto da Pietro Masturzo, scelto come «foto dellanno» dalla giuria dellultima edizione del World Press Photo, che consacra i migliori scatti e autori del fotogiornalismo internazionale. Tra cronaca, arte, quotidiano, sport, natura e ritratti, le opere dei 63 fotografi premiati per un totale di 23 nazionalità, sono riunite nella mostra «World Press Photo 2010», fino al 6 giugno al museo di Roma in Trastevere, nel tentativo di offrire una panoramica sugli avvenimenti più importanti dellanno passato e, al contempo, attraverso di essi, raccontare la filosofia del fotogiornalismo, in costante evoluzione per tenere il passo con lattualità.
Di fronte a una realtà caratterizzata da una violenza aberrante e assurda, la fotografia sceglie di documentare il fatto per poi superarlo e farne un paradigma su cui meditare. Nessuna risposta quindi, ma infinite domande, lasciate volutamente aperte per spingere losservatore a riflettere sul suo ruolo di testimone e invitarlo alla partecipazione emotiva e civile, possibile grazie ad un impatto shock che, nello spazio di uno scatto e di uno sguardo, annulla ogni distanza geografica e temporale. Così lazione diventa pensiero e questo di nuovo azione in uninterpretazione più lenta e consapevole di una cronaca che, spesso, non lascia il tempo di decidere e comprendere. Nel «senno di poi», raggiunto con la cristallizzazione del momento, sembrano riposare la percezione del presente e la proiezione del futuro. Dunque, il fotogiornalismo interroga, con l'obiettivo di indagare la natura più intima dellessere umano che guarda ed è guardato. Davanti agli obiettivi corrono e scorrono le vittime di guerra, anche bambine, e le menomazioni dei reduci, le bombe al fosforo bianco, vietate dalle convenzioni internazionali ma sganciate su Gaza City, e leroico gesto del soldato americano che, per raggiungere i compagni attaccati, esce di corsa con il fucile in mano, indossando solo i boxer.
Guerra è pure quella che si combatte nelle strade cittadine, con il cadavere di un giovane spacciatore ucciso in Colombia o quello di un uomo lapidato per adulterio a Mogadiscio. Ancora, sono le immagini dei mattatoi in Umbria e la violenza, più naturale, che gli animali usano contro i loro simili per la difesa del territorio o per nutrirsi. In un ideale dialogo, a tratteggiare diverse tipologie di disagio, il percorso affianca foto di anoressia a quelle della disperazione di un villaggio nel parco nazionale di Gonarezhou in Zimbabwe, i cui abitanti, per fame, uccidono e spolpano fino allosso un elefante. La violenza è perfino nella fisicità dello sport, con una predilezione per quelli estremi, e nelle colorate immagini di alcune arance, contaminate dal cadmio. Nature morte, tra estetica e concetto.
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