"Essere single non significa essere a disposizione di chiunque". Sembra un principio scontato ma non lo è affatto, e la Corte di Cassazione è dovuta intervenire per ribadirlo, mettendolo nero su bianco in una sentenza sul caso di un sessantenne residente a Lecco che nel 2017 aveva realizzato e messo in vendita un catalogo di donne pescando i dati dai social network, con tanto di foto, inclinazioni sessuali e altri dettagli più o meno pruriginosi. Secondo la difesa i dati erano stati liberamente pubblicati su Facebook dalle dirette interessate e, per questo motivo, non vi sarebbe stato alcun illecito. Ma dopo quattro anni di processi e tre gradi di giudizio, è stata messa la parola fine ed è arrivata la condanna per l'autore: un anno e sei mesi di reclusione e il risarcimento di mille euro per ciascuna delle parti civili, più le spese legali. Soddisfatta l'avvocato Marisa Marraffino, del foro di Milano, che ha difeso alcune donne finite loro malgrado nel catalogo, alcune delle quali hanno dovuto affidarsi ad uno psicologo.
"La pubblicazione di un dato personale sul proprio profilo social - argomenta la Cassazione - non può ritenersi equivalente ad un'indiscriminata autorizzazione a fare, di quello stesso dato, un qualunque uso da parte di chicchessia, al di fuori di ogni consenso dell'interessato".
Il catalogo era stato messo in vendita su internet a 7,01 euro con il seguente slogan: "Al costo di un drink! Quanto tempo impieghereste per cercarle tutte". Le donne catalogate, come in una fiera del bestiame, erano più di mille: 1.218 per l'esattezza, tra cui 29 minorenni. L'elenco proseguiva indicando gli orientamenti sessuali, l'etnia, il lavoro, luogo di residenza e in alcuni casi la scuola frequentata o il datore di lavoro. Per talune era indicata anche la disabilità. Presente anche un link per ciascuna donna, con il quale si rimandava al profilo Facebook di riferimento.
Cos'era successo alle donne finite nel "catalogo delle single"? Molte di loro erano state contattate, con richieste di amicizia indesiderate. Hanno vissuto settimane e mesi di ansia, temendo di poter essere avvicinate per strada da chi aveva visto il loro profilo sul catalogo e conosceva molti dettagli sensibili sulla loro vita. Prima della denuncia e dell'intervento delle autorità il catalogo è rimasto online per tre giorni ed è stato venduto in una trentina di copie.
L'autore del catalogo aveva insistito molto affermando che il suo "lavoro" non avrebbe creato alcun danno alla reputazione delle donne coinvolte. Tesi strampalata sconfessata da tre gradi di giudizio. La sentenza di condanna nei confronti dell'uomo ora è definitiva.
"Questo processo è il primo su un tema così delicato - spiega l'avvocato Marraffino - sono soddisfatta che la Suprema Corte abbiamo dato un indirizzo ben preciso e un punto fermo sull’utilizzo dei social, anche quelli con un profilo pubblico. È passato un principio fondamentale: l’autodeterminazione dell’utente che sceglie quando, dove e come pubblicare informazione personali che lo riguardano.
Grazie alle donne di Lecco, al loro coraggio e alla loro determinazione è stato sancito un principio giuridico importante che va a beneficio di tutti. Un principio che farà scuola". E, cosa non secondaria, la Cassazione va a modificare la legge sulla privacy con indicazioni "che ora tutti dovranno osservare".
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