Basta una faccina che ride per essere condannati: il caso a Varese

La Cassazione ha stabilito che è diffamazione prendersi gioco pubblicamente, con una emoji sui social, di chi ha una disabilità fisica. "Come uno strumento di comunicazione rafforzativo del messaggio del contenuto testuale che talvolta è violento"

Basta una faccina che ride per essere condannati: il caso a Varese

Quando si scrive bisogna prestare la massima attenzione anche quando non si utilizzano le parole che spesso e volentieri vengono sostituite dalle "faccine" (emoji) ognuna delle quali ha un ben specifico significato in relazione al contesto in cui si opera. Per questo motivo la Corte di Cassazione ha emanato una condanna per diffamazione per aver valutato reato un commento a un post su Facebook nei confronti di un ipovedente.

Cosa dice la sentenza

Insomma, chi si prende gioco pubblicamente di chi ha deficit fisici può rischiare davvero grosso. Con la sentenza numero 2251 del 2023 (qui la copia non ufficiale) pubblicata da Giuridica.net, la Cassazione ha ribaltato l'iniziale decisione della Corte d'Appello di Varese che aveva deciso per multa di 800 euro perché stabilito che si trattasse di ingiuria. La persona condannata in un post pubblico su Facebook "dedicato ai problemi di viabilità del comune di Luino, faceva espresso riferimento a deficit visivi della parte civile («punti di vista, anche storta» ... «mi verrebbe da scrivere la lince, ma ho rispetto per la gente sfortunata», con più 'emoticon' simboleggianti risate), dileggiandola".

Cosa ha deciso la Cassazione

L'autore del post era stato assolto dal reato perché "il deficit visivo non diminuisce il valore di una persona" e perché la parte offesa avrebbe potuto replicare sempre in chat in maniera immediata. La Cassazione, invece, ha accolto il ricorso stabilendo che la condotta dell'imputato integrasse "una ipotesi di diffamazione aggravata" perché chi deride una persona con problematiche fisiche come nel caso dell'ipovedente, ossia con disabilità visiva, prendendosi gioco di lui pubblicamente, integra "il reato di diffamazione perché contiene una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenta una aggressione alla reputazione della persona". La reputazione di ogni persona viene considerata un diritto che non si può violare e legato direttamente alla "stessa dignità della persona".

Nella pagina finale, la Corte ha deciso di impugnare la sentenza sentenza del Tribunale di Varese annullandola "limitatamente agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello". Ma qual è la differenza tra ingiuria e diffamazione che ha fatto la differenza? Nel primo caso si ha quando le due persone si trovano faccia a faccia, di fronte, senza la presenza di terze parti; con la diffamazione, invece, l'offesa avviene davanti a una platea e di conseguenza assume una connotazione più grave che va sanzionata diversamente. Nel caso specifico, su Facebook, non si trattava di una conversazione privata tra i due ma di un post pubblico con interazioni e commenti anche da parte di altri utenti.

"Danno alla dignità"

"Le offese, anche con le emoji, possono considerarsi un danno anche grave alla dignità delle persone con fragilità nei confronti del loro corpo", ha affermato al Messaggero Vera Cuzzocrea, consigliera dell’Ordine degli psicologi del Lazio commentando la decisione della Cassazione.

"È importante perché riconosce la lesività della condotta, come una vera e propria diffamazione". La novità di questa sentenza è che l'emoji viene riconosciuta "come uno strumento di comunicazione rafforzativo del messaggio del contenuto testuale che talvolta è violento", ha concluso la psicologa.

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