Archiviata per «insussistenza dei reati contestati». L’imputazione non esiste, non regge. È completamente innocente - anche su questo fronte - Attilio Fontana, governatore lombardo in carica oggi come nei giorni del Covid: non toccava a lui istituire la «Zona rossa» in val Seriana nei primi giorni dell’epidemia, esplosa in Lombardia nel 2020. Non ha responsabilità su quanto accaduto, per quanto doloroso, come non aveva alcuna responsabilità penale sul caso dei «camici».
Per quella vicenda è stato prosciolto un anno fa, con esito confermato in appello il 10 luglio. Ieri è arrivata la parola «fine» anche sulla Zona rossa.
Accogliendo le richieste della Procura, il Tribunale dei ministri di Brescia ha disposto l’archiviazione per lui e per gli altri indagati. Resta «in vita» tecnicamente, e soltanto per altri, solo un’accusa «minore»: un rifiuto d’atti d’ufficio, ma non per molto, probabilmente.
Cristalline le conclusioni del Tribunale. La competenza sulla istituire di restrizioni «era, in prima battuta, del presidente del Consiglio». Il presidente della Regione non avrebbe potuto farlo «senza confrontarsi con il governo».
Quindi la contestazione rivolta a Fontana «di non aver introdotto la zona rossa nei Comuni di Nembro e Alzano è si legge - anche astrattamente, infondata». I giudici inoltre attestano che non è provato il «nesso causale»: l’ipotesi di un rapporto causa effetto fra le scelte e le «morti in eccesso», «non è supportato neppure dalla consulenza Crisanti», microbiologo, senatore Pd e consulente dei pm di Bergamo. Il tutto si riduce «a nulla più che a una congettura priva di basi scientifiche».
Con questo, la condotta di Fontana è stata riconosciuta corretta su tutta la linea. «Ci sono voluti tre anni di tritacarne, mediatico e giudiziario - hanno spiegato i suoi legali - per decretare l’assoluta infondatezza delle accuse sui camici, a cui si sono aggiunti 6 mesi di altrettanta angoscia per veder riconoscere che il presidente Fontana si è sempre comportato secondo legge e secondo coscienza, non ha agevolato la pandemia e non ha causato i decessi a lui attribuiti».
La vicenda della «mancata zona rossa» - insieme al caso dei Trivulzio e all’ospedale in Fiera - era uno dei capisaldi di una narrazione feroce e ossessiva, che aveva dipinto la Lombardia come teatro di un «disastro», di uno sfascio e colpevole, di un «fallimento» totale, con l’obiettivo - neanche tanto nascosto - di infangare il più importante e longevo esperimento di governo territoriale del centrodestra. In questa narrazione forcaiola, il leghista Fontana, e il suo assessore alla Sanità Giulio Gallera (forzista) erano stati non criticati ma mostrificati, insultati, criminalizzati senza alcun ritegno. Su un giornale nazionale, Fontana era stato definito come «serial killer». Era, quel clima tremendo, il risultato del solito riflesso giustizialista che coltiva l’illusione forcaiola che pretende di cercare colpevoli a ogni costo, e immancabilmente vuole trovarli nel campo del centrodestra.
Sollevato il governatore. Fontana non ha mai avuto dubbi, ma era stato comprensibilmente provato da questo accanimento. Eppure ha resistito e pochi mesi fa, alle elezioni, ha ricevuto dai concittadini la sonante conferma della loro fiducia. «Su questa indagine - ha commentato - una certa parte politica ha costruito per anni una campagna di vero e proprio odio contro la Lombardia e contro il nostro operato».
«Nelle pagine della sentenza di archiviazione - ha concluso Fontana - vedo smontate molte delle troppe bufale costruite ad arte su quei mesi drammatici che hanno sconvolto le nostre comunità e provocato un immenso dolore a tante famiglie».
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