4 marzo 1947, l'ultima condanna a morte in Italia

Fucilati a Torino gli autori della strage di Villarbasse (10 morti)

4 marzo 1947, l'ultima condanna a morte in Italia

Se uno dice “4 marzo” subito viene in mente Lucio Dalla, giustamente. Perché il grande cantautore bolognese presentò al Festival di Sanremo del 1971 un brano intitolato con la sua data di nascita, 4 marzo 1943 appunto. In realtà il titolo scelto dall’autore era Gesùbambino, ma per la RAI di Bernabei era considerato empio; fu il maestro Ruggero Cini a modificarlo. Dalla salì sul palco della canzone italiana per eccellenza e con un’interpretazione delle sue diede in quell’occasione reale inizio a un percorso unico nella canzone d’autore, una cavalcata tra canzoni indimenticabili conclusa solo con la sua scomparsa, il 1° marzo 2012. Quei versi sono scolpiti nella pietra del nostro immaginario: “Dice che era un bell'uomo/ E veniva, veniva dal mare/ Parlava un’altra lingua però sapeva amare/ E quel giorno lui prese mia madre sopra un bel prato/ L'ora più dolce prima d’essere ammazzato… E ancora adesso che gioco a carte/ E bevo vino/ Per la gente del porto/ Mi chiamo Gesù Bambino”. C’è un altro 4 marzo assolutamente meno famoso di quello reso eterno dal grande Lucio Dalla, ma anch’esso importante per la storia d’Italia. Martedì 4 marzo 1947, ore 7 e 45 del mattino, poligono di tiro delle Basse di Stura (Torino): viene eseguita per mano dello Stato l’ultima condanna a morte nel nostro Paese. Anzi, le ultime condanne a morte, dal momento che vengono passati per le armi Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti. Cos’era mai accaduto per arrivare a un epilogo del genere? Bisogna tornare ai mesi dell’immediato dopoguerra. 20 novembre 1945, Villarbasse, abitanti 1.100 circa, una ventina di chilometri a ovest di Torino. Villar, villaggio, arbasse, tra le abbazie, cioè la Sacra di San Michele (che ispirò Umberto Eco per “Il nome della rosa”) e quella di San Solutore, laddove sorgono oggi i bastioni della Cittadella di Torino. Ma questa storia nera come la pece non ha proprio nulla a che vedere con gli itinerari religiosi del Piemonte.

È sera, nelle campagne di Villarbasse sorge Cascina Simonetto, il torrente Sangone scorre poco lontano. L’avvocato Massimo Gianoli, 65 anni, dirigente dell’Agip fino al 1940 sta cenando nella casa padronale. A servirlo come sempre la sua domestica, Teresa Delfino, 61. La proprietà è abbastanza estesa, in un altro immobile della cascina c’è la famiglia dell’affittuario dell’avvocato Gianoli: Antonio Ferrero, 51 anni. L’uomo è assieme alla moglie Anna Varetto, 45, e al genero Renato Morra, 24, cui si sono unite le domestiche Fiorina Marfiotto, 32, e Rosa Martinoli, 65, con un bracciante assunto poco tempo prima in Cascina, Marcello Gastaldi, 45. C’è anche un bambino di 2 anni. In casa c’è aria di festa, perché i coniugi Ferrero sono appena diventati zii di una nipotina. L’orologio batte le 8 in punto. 8 come le persone che in quel momento popolano quella proprietà terriera nella Val Sangone. Dal buio 4 ombre penetrano in quella tranquillità domestica: sono Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti e Pietro Lala. Lala, che si fa chiamare con il falso nome di Francesco Saporito, ha lavorato per alcuni mesi nella Cascina Simonetto come garzone. Il piano dei banditi in teoria è abbastanza semplice: sequestrare tutti coloro che sono presenti nella Cascina e rubare parte di denaro e preziosi che l’avvocato Gianoli custodisce in casa. Lala, il basista della banda, conosce bene questa circostanza. L’azione è fulminea, tutti gli ostaggi vengono portati nella casa padronale. Ma a quel punto un imprevisto cambia completamente e tragicamente il copione criminale: il bandito Pietro Lala si è coperto il volto con un tovagliolo diventato improvvisato passamontagna. Questo tovagliolo cade, lasciandogli scoperto il volto. È un attimo: una delle domestiche ha un sussulto e riconosce in quel criminale il garzone con cui ha lavorato qualche tempo prima.

A questo punto i banditi perdono la testa. Portano a uno a uno gli ostaggi in cantina e li uccidono a bastonate. Mentre compiono l’orrenda strage giungono alla cascina Simonetto Gregorio Doleatto e Domenico Rosso: sono i mariti delle due domestiche Fiorina Marfiotto e Rosa Martinoli, sono preoccupati perché non le hanno viste rientrare a casa dopo il lavoro e sono venuti a cercarle. Ne seguiranno la stessa tragica sorte. L’unico ostaggio a tentare una reazione contro i banditi è il giovane Renato Morra, che ha combattuto come capo partigiano durante la Resistenza tra l’ottobre del 1944 e il giugno di quel 1945. Riesce a divincolarsi e con il filo di ferro che gli lega i polsi ferisce al volto il bandito La Barbera. Ma gli assassini gli sono subito addosso e lo uccidono. Resta vivo soltanto il bambino di 2 anni, che la banda risparmia perché non lo ritiene ovviamente un testimone pericoloso. Le vittime sono dieci, la furia omicida ha cancellato per sempre quattro nuclei familiari. I corpi senza vita vengono portati sull’aia della cascina per essere poi gettati in una cisterna di raccolta dell’acqua piovana. A questo punto i banditi mettono a soqquadro la casa padronale e rubano 200mila lire (poco meno di 4.076 euro), un paio di orecchini d’oro, quattro salami, tre paia di calze e dieci fazzoletti. Inoltre restano aperte e svaligiate tre casseforti nell’abitazione dell’avvocato Gianoli. La scomparsa degli abitanti di Cascina Simonetto e il ritrovamento del solo bambino suscitano enorme commozione e inquietudine tra gli abitanti della Val Sangone. In quel momento la giustizia e l’ordine pubblico sul territorio nazionale sono amministrate dall’AMGOT o AMG, organo militare composto dai Paesi Alleati vincitori della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto Usa e Regno Unito. L’AMG operò in Italia tra lo sbarco in Sicilia (9 luglio 1943) e il definitivo passaggio di consegne con la ricostituita amministrazione statale italiana (31 dicembre 1945). Gli americani sono convinti che quella sparizione di massa sia frutto di una vendetta dei partigiani comunisti. Infatti l’Italia di quei mesi tumultuosi, pur liberata dai nazifascisti, diventa teatro di vendette private, spesso in un contesto di contrapposizione ideologica da guerra civile (emblematiche a tal proposito le pagine di Giampaolo Pansa, dal libro “Il sangue dei vinti” in poi). La strage di Villarbasse è compiuta il 20 novembre 1945; l’amministrazione alleata cessa dai suoi poteri 31 giorni dopo. Possiamo quindi supporre la solerzia nelle indagini in quella prima fase, con l’accreditamento pregiudiziale della falsa pista del movente politico. Il 28 novembre 1945 il mugnaio Enrico Coletto si cala nella cisterna e scopre i 10 cadaveri che lì giacevano da otto giorni. La misteriosa scomparsa diventa una strage efferata.

In una vigna di pertinenza della cascina viene ritrovata una giacca; sulla federa interna è cucita un’etichetta con la scritta “Caltanissetta”. Il che consente di restringere le ricerche a uno o più assassini siciliani. Il giovane sottotenente Armando Losco guida le indagini dei Carabinieri Reali (avrebbero perso la qualifica regia solo dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946) che nel marzo del 1946 identificano uno dei componenti della banda, Giovanni D’Ignoti, che nel frattempo era tornato a Torino. Gli uomini dell’Arma avevano trovato a Rivoli, in una soffitta in cui aveva abitato dopo la strage un frammento della tessera annonaria che lo stesso bandito aveva tentato invano di bruciare. Il 25 marzo 1946 lo portano in caserma, lo torchiano, gli fanno credere di aver già arrestato tutti i suoi complici con il classico stratagemma del “saltafosso”: D’Ingenito cade nel tranello e sputa fuori i nomi della banda. Portato nelle prigioni di Venaria Reale viene raggiunto dietro le sbarre da Francesco La Barbera e Giovanni Puleo. Il basista Pietro Lala sfugge alla giustizia solo perché nel frattempo è stato ucciso nel suo paese d’origine, a Mezzojuso (Palermo), in un misterioso agguato, una specie di regolamento di conti malavitoso. Nell’aprile 1946 i tre criminali vengono trasferiti nel complesso carcerario torinese delle Nuove, dove vengono assistiti spiritualmente dallo storico cappellano di quelle prigioni, il frate francescano Ruggero Cipolla. Il 2 luglio inizia il processo per direttissima e il 5 luglio 1946, quando l’Italia è diventata Repubblica da poco più di un mese, è emessa la sentenza: D’Ignoti, Puleo e La Barbera vengono condannati a morte. Cercano di opporsi alla sentenza fino alla Corte di Cassazione, che il 29 novembre 1946 conferma la pena capitale. Ultima spiaggia la richiesta di grazia al Capo provvisorio dello Stato, l’avvocato liberale Enrico De Nicola. Non c’era ancora la televisione, ma i primi effetti della giustizia spettacolo già erano visibili sulle pagine della carta stampata. E gli italiani dopo gli orrori collettivi della guerra scoprivano quelli privati della metà oscura dell’essere umano. Il 29 novembre 1946 (stesso giorno della pronuncia della Cassazione sugli assassini di Villarbasse), Rina Fort aveva ucciso a Milano la moglie e i figli del suo amante: la “belva di San Gregorio” farà irrompere la cronaca nera nella storia repubblicana appena iniziata. Un clima generale, un sentimento dell’opinione pubblica che non lasciò indifferente il Capo provvisorio dello Stato De Nicola. Che il 3 marzo 1947 respinse la richiesta di grazia dei massacratori di Villarbasse. 4 marzo 1947. D’Ignoti, Puleo e La Barbera vengono portati al poligono torinese delle Basse di Stura.

Legati mani e piedi a sedie di legno, davanti a loro un plotone di esecuzione formato da agenti di pubblica sicurezza. I fucili fanno fuoco, i tre muoiono, dopo essere stati assistiti spiritualmente da frate Cipolla. Il 18 settembre 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva all’unanimità l’articolo 27 della Costituzione, che ai commi 3 e 4 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. Entrerà in vigore come tutta la Carta fondamentale della Repubblica l’1 gennaio 1948. Le fucilate di quella fredda mattina del 4 marzo 1947 in un poligono di tiro a Torino chiusero per sempre la storia della pena di morte in Italia, che era stata reintrodotta dal regime fascista nel 1926. Quella mattina tra i giornalisti autorizzati ad assistere alla fucilazione c’era un giovane cronista della “Gazzetta del Popolo” di Torino: si chiamava Giorgio Bocca.

Pare che nessuno, a parte qualche riga di una zia di Puleo, durante gli 11 mesi di detenzione visitò né scrisse lettere ai tre condannati a morte. Oggi una lapide nel piccolo cimitero di Villarbasse ricorda le vittime di quell’eccidio. Cascina Simonetto è ancora abitata. E viva.

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