L'adrenalina, le armi, i pugni alle Br: "Come liberammo Dozier"

Nel racconto di due operatori Nocs, i 50 secondi in cui sono state sconfitte le Brigate Rosse

L'adrenalina, le armi, i pugni alle Br: "Come liberammo Dozier"

Verona, 17 dicembre 1981 - Padova, 28 gennaio 1982. Sono passati quarant’anni dal sequestro e dalla liberazione del generale americano James Lee Dozier a opera delle Brigate rosse guidate da Antonio Savasta.

In particolare, la liberazione del generale americano (un pezzo davvero grosso: al tempo era sottocapo di Stato maggiore addetto alla logistica del comando delle forze terrestri della Nato nell’Europa Meridionale), è stato l’evento che ha portato per la prima volta alla ribalta il Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza), nato nel 1978 ma fino a quel momento impiegato in situazioni con meno eco mediatica. Un evento, come in molti sostengono, che ha segnato l'inizio della fine delle Brigate rosse; uno di quegli eventi che resteranno nella storia. È per questo che, nel quarantesimo anniversario, abbiamo deciso di ripercorrerlo attraverso la voce di alcuni dei protagonisti che a vario titolo vi hanno partecipato.

La nostra storia comincia il 27 gennaio 1982, alle 22.

È a quell’ora che il capitano Edoardo Perna, giovane vice comandante dei Nocs, riceve la telefonata. Dall’altro capo del telefono, l’allora capo dell’Ucigos, il prefetto Gaspare De Franscisci: “Perna, prepari gli uomini, i più bravi che ha, e li porti immediatamente a Verona”. Queste le parole che ci ripete Edoardo Perna quando lo incontriamo a Roma, all’interno di un bar che affaccia su una delle vie più trafficate della capitale, mentre fuori impazza un temporale di fine autunno.

Oggi Perna è in pensione. Capo scorta di Francesco Cossiga durante il rapimento Moro (“Ho visto i suoi capelli diventare bianchi nell’arco dei 55 giorni”), capo scorta di Virginio Rognoni, guardia del corpo di Berlinguer durante il suo viaggio in Nicaragua, nonostante gli anni trascorsi, Edoardo Perna ricorda ancora molto bene i dettagli di quella operazione: “Erano anni difficili – ci dice – solo quindici giorni prima, a Roma, con un blitz coordinato avevamo smantellato tre covi brigatisti e arrestato Giovanni Senzani”. Gli chiediamo di raccontarci il perché di quella chiamata da parte del prefetto De Francisci: “Avevano trovato il covo in cui era tenuto prigioniero Dozier. Avevano preso il fiancheggiatore che aveva portato il generale da Verona a Padova e lo stavano facendo parlare”.

Perna si riferisce a Ruggero Volinia, fiancheggiatore delle Br. Fu lui a guidare il furgone dove, dentro una cassa di legno, era stato rinchiuso Dozier subito dopo il rapimento. Le versioni su come sia stato individuato il covo brigatista – come già accennato - sono discordanti, per adesso limitiamoci a raccontare i fatti per come sono stati trasmessi dalla verità giudiziaria e, in effetti, per come ci sono stati confermati da testimoni come Perna: “Erano stati Umberto Improta e i suoi uomini a trovarlo. Per convincerlo a parlare, Improta gli aveva detto che gli avrebbe rivelato il luogo dove abitava la sua famiglia, per dimostrargli fiducia... non ne sono sicuro, ma forse gli ha anche promesso qualcosa, in cambio dell’indicazione corretta del covo”.

Umberto Improta, pezzo da novanta della polizia durante gli anni di piombo e non solo, grande investigatore e – a detta di chi l’ha conosciuto – fine psicologo all’occorrenza.

A ogni modo, che cosa ci sta raccontando Perna? Come si è arrivati a Ruggero Volinia? Ecco, arriviamo alla versione ampiamente condivisa tanto dai protagonisti diretti di questa vicenda, quanto dalle cronache dell’epoca: tutto comincia con l’arresto di Paolo Galati, fratello del pentito brigatista Michele Galati.

Paolo fa il nome di Elisabetta Arcangeli, indicata come militante della sinistra extraparlamentare. In casa della Arcangeli, gli uomini di Improta trovano Ruggero Volinia, che si scopre essere appunto il fiancheggiatore che ha guidato il furgone con Dozier prigioniero. Passano due giorni. Da fonti aperte la tesi ricorrente è che tanto Volinia quanto la Arcangeli siano stati sottoposti a tortura da parte del famigerato dottor De Tormentis, alias di Nicola Ciocia, poliziotto membro insieme ad altri tre del cosiddetto gruppo dell’“Ave Maria”. Sul punto però nessuno degli intervistati conferma o smentisce “Noi eravamo operativi – ci dice Perna – non dovevamo ottenere informazioni, agivamo e basta”. Tornando a Volinia, a due giorni dalla cattura crolla e accetta di portare Improta e i suoi al covo dove viene tenuto prigioniero il generale statunitense. Alt. Facciamo un passo indietro e torniamo all’arresto di Paolo Galati, perché anche in questo caso la verità sembra avere molte facce.

Una fonte interna ai servizi, che all’epoca prese parte alle fasi di individuazione del covo brigatista, ci racconta una storia simile, altrettanto credibile. Lasciamo a voi l’interpretazione: “L’individuazione del covo di Dozier fu... come posso dire... una botta di culo”. Queste le sue esatte parole. Vediamo perché: “Fu merito della Polfer di Verona... fermarono alla stazione un tossico e lo portarono in caserma. Una volta qui il ragazzo, per essere lasciato in pace, disse che avrebbe potuto dare informazioni importanti sulle Brigate rosse. All’inizio non fu creduto, anzi si beccò anche qualche scappellotto, perché su certe cose era meglio non scherzare all’epoca. Poi però qualcuno degli agenti s’incuriosì e in effetti, dopo una banale verifica dei documenti, il tossico risultò essere Paolo Galati, fratello del brigatista pentito. Insomma il caso ci ha messo lo zampino”.

Quale che sia la versione corretta, ottenuta da Volinia l’indicazione esatta del covo brigatista – Padova, via Pindemonte 2, appartamento al primo piano – Improta avverte il prefetto De Francisci, che a sua volta telefona a Perna: “Siamo arrivati a Padova alle cinque del mattino. Dovevamo fare un sopralluogo e siamo saliti in una macchina io, Improta, un collega esplosivista, il capo di gabinetto della questura di Padova e Ruggero Volinia, che ci ha portati fin sotto il covo. Una volta lì, Improta mi ha guardato e mi ha detto 'ora tocca a te'... la prima cosa che andava verificata era se ci fosse una porta blindata. In quel caso avremmo dovuto usare l’esplosivo. L’unico modo per fare questa verifica era andare fino al primo piano e bussare al covo... aspettammo le nove di mattina. Sullo stesso piano c’era un dentista. Io e una collega, fingendoci moglie e marito, salimmo le scale e demmo un’occhiata. La porta del covo non era blindata. Due ore dopo facevamo irruzione nel covo. Un’azione durata 50 secondi”.

A raccontarci qualche dettaglio in più – e con un altro punto di vista – è un altro operatore tra i sei entrati nel covo: Carmelo Di Janni. L’abbiamo incontrato a Roma, seduti al tavolo di uno dei locali più famosi della capitale. Stazza enorme, fisico ancora prestante, Di Janni – nome in codice “Bimbo” - faceva parte di un commando di uomini scelti, la "crème de la crème", un manipolo di incursori che all’epoca poteva contare solamente sulle proprie qualità fisiche e psicologiche: “Ero un ragazzino, avevo ventitré anni - ci dice rievocando quei momenti - L’adrenalina prima di un’irruzione è qualcosa di inspiegabile... noi avevamo due obiettivi: neutralizzare le persone e bonificare l’ambiente da armi e, soprattutto esplosivi. Mi ricordo ancora quando quindici giorni prima sono entrato nel covo di Giovanni Senzani a Tor Sapienza, Roma. C’era di tutto là dentro: lanciamissili, mitra, bombe. Una santabarbara. Proprio come nel covo di Padova”.

Steso su un letto infatti i Nocs troveranno l’arsenale della banda. Ma torniamo al momento dell’irruzione: “In quel caso, il mio timore era che dietro la porta fosse piazzato un esplosivo. Ma l’unico modo per scoprirlo era sfondarla. E così abbiamo fatto... Io sono stato il secondo a entrare... la pistola non la tirai nemmeno fuori, non serviva, eravamo tutti esperti di arti marziali, boxeur, campioni di pesi massimi. Ricordo di essermi trovato di fronte uno dei brigatisti, era armato... con un solo pugno gli ho scaricato addosso tutta la tensione del momento. Anni dopo, durante uno dei processi, ci siamo stretti la mano”.

Carmelo Di Janni è il secondo uomo a entrare nella stanza in cui il brigatista Giovanni Ciucci sta per giustiziare – o almeno così sembra – il generale Dozier: “Dopo la botta in testa con il calcio della pistola che gli ha dato il mio collega, l’ho preso (Ciucci, ndr) e l’ho lanciato fuori dalla stanza. A quel punto Dozier ci guardava terrorizzato... credeva fossimo un altro gruppo brigatista venuto a rapirlo. Io ho capito e mi sono tolto il sottocasco... 'Siamo della polizia italiana' gli ho detto. Dozier allora si è alzato e mi ha abbracciato”.

Un lieto fine per nulla scontato. Un'azione da manuale condotta senza sparare un solo colpo.

Cosa non da poco, in quegli anni: "Dopo tutto - ci confida la nostra fonte interna - non solo la morte dell'ostaggio era data al 90%, ma l'eco degli spari in via Fracchia, a Genova, quando il 28 marzo 1980 gli uomini di Carlo Alberto Dalla Chiesa uccisero i brigatisti nel blitz, era ancora molto forte".

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