Aria di elezioni anticipate

Nessuno lo ammette, più per scaramanzia che per altro, ma scava scava, si scopre che la realtà è un'altra

Aria di elezioni anticipate

Nessuno lo ammette, più per scaramanzia che per altro. Quell'espressione, elezioni anticipate è, infatti, quasi bandita dal vocabolario dei parlamentari della 17ª legislatura. Ma scava scava, si scopre che la realtà è un'altra. «Possono dire ciò che vogliono - sussurra all'orecchio il piddino Antonio Latorre, che ha una lunga esperienza parlamentare - ma l'aria che si respira è quella delle urne in primavera». Anche una volpe come Silvio Berlusconi ha annusato quella strana atmosfera e nell'ultimo vertice ristretto ad Arcore, prima di partire per gli Usa, ha avvertito i suoi: «Stiamo attenti - ha spiegato -. Renzi è in campagna elettorale ma non solo per il referendum, anche per le elezioni politiche». Il Cav non ha torto: il premier un giorno sì e un altro pure continua a ripetere «se perdo me ne vado». Non lascia spazi ad alternative. Pure negli sms ai politici del campo del No è quanto mai chiaro. «Il dopo referendum non vi riguarderà se vinco io - scrive -. Non mi riguarderà se vincete voi. Ma in quest'ultimo caso vi seguirò con sguardo divertito!».

Messa così è difficile vedere uno scenario diverso. Il meccanismo che porta alle elezioni anticipate, infatti, è un moto spontaneo, che nessuno desidera, che, magari, molti tentano di fermare, ma che tra spinte e controspinte, veti e rotture, va avanti per inerzia e arriva al suo sbocco naturale. Si parte con un coro di «non vogliamo le elezioni anticipate». Si finisce con degli «assoli» di accuse reciproche: «Le elezioni anticipate non le abbiamo volute noi, ma gli altri». È fatale. Specie nella situazione attuale, in cui regna la più grande confusione. Nel Palazzo si dice tutto e il suo contrario. Ma il regno della contraddizione, il luogo dove il bianco per alcuni diventa nero, e viceversa, è il Pd. I renziani teorizzano che la vittoria del No aprirà la strada alle urne. «Se perdiamo il referendum - osserva il toscano Andrea Marcucci - quelli della minoranza proveranno sicuramente a mandarci via e, comunque, ci riescano o meno, si andrà a elezioni in primavera». Gli altri, quelli dell'opposizione interna, la pensano alla rovescia. «Se vince il Sì si andrà alle elezioni anticipate di gran carriera, è ovvio - profetizza Massimo Mucchetti -. Renzi cercherà di doppiare il risultato e ci porterà alle urne con l'Italicum. Dimenticando la promessa di cambiarlo. Io se fossi al suo posto farei la stessa cosa. Se, invece, vince il No, nel 2017 bisognerà cambiare le cose dentro il Pd e si andrà al voto l'anno seguente. Sempre che l'encefalogramma del partito non sia piatto. La priorità sarà superare il doppio incarico di Renzi e incoronare un nuovo segretario. Errani sarebbe la persona giusta».

Insomma, il partito di maggioranza è squassato, diviso. E per scoprire cosa ci riserva il futuro, basta dare uno sguardo al passato: nella Prima Repubblica, quando nella Democrazia cristiana c'erano scontri cruenti, le elezioni anticipate diventavano lo strumento per instaurare un nuovo equilibrio; ora nella Seconda o nella Terza Repubblica (a seconda dei calcoli), potrebbe succedere la stessa cosa, visto che nel Pd ci sono molti eredi della Dc, e l'ambizione di questo partito (vedi le discettazioni sul Partito della nazione) è proprio quella di diventare la «Dc 2.0». Tanto più che la guerra nel Pd è ben più feroce (magari per l'incontro con la tradizione comunista) di quella che c'era nella Dc. Sarebbe stato difficile, infatti, sentire sulla bocca di un democristiano le parole con cui Massimo D'Alema ha fatto conoscenza con un senatore pugliese di Forza Italia: «Per me che lei sia di Forza Italia non è un difetto. Se si fosse presentato come renziano, invece, l'avrei mandata a quel paese: ormai per me il mondo si divide tra chi vuole metterla in quel posto a Renzi e chi, invece, lo vuole difendere».

Gli altri, i «non Pd», alleati o avversari, assistono attoniti allo spettacolo. E azzardano qualche previsione, o qualche suggestione, per scongiurare la prospettiva elettorale. O per allontanarla nel tempo. «Ma quali elezioni?! - si infervora il presidente dei senatori verdiniani, Paolo Barani -. Sia che vinca il Sì, sia che vinca il No faremo un Renzi-bis con quattro nuovi ministri e noi dentro. Nella prossima primavera ospitiamo il G8 e Mattarella non permetterà mai che l'Italia voti nello stesso periodo». Un vero atto di fede. Più problematico Gaetano Quagliariello, che ha lasciato il nuovo centrodestra per sposare le ragioni del No. «Non prendiamoci in giro - ragiona -. Se vince il Sì Renzi ci porta a votare subito. Se vince il No sarà necessario fare una nuova legge elettorale. Magari ci aiuterà la Consulta modificando l'Italicum. In ogni caso, però, si dovrà fare una nuova legge per il Senato. Ci sarà bisogno di un governo che duri il tempo necessario senza determinare inciuci. La data ottimale? Si può votare ad ottobre visto che Renzi ha inaugurato la tradizione del referendum a dicembre».

Quindi tutto è possibile. Addirittura che dopo venti anni di maggioritario, la nostra classe politica viri di nuovo verso il proporzionale. I grillini sono pronti alla «strambata», ma sono in preda alla sindrome di Amleto sul governo che dovrebbe metterla in pratica: un giorno sono pronti ad assecondarlo, un altro no. Appunto, si disserta anche su quale sarà il governo che porterà il Paese al voto: se l'interessato sarà disponibile (ma è estremamente improbabile) c'è la carta del Renzi-bis; altrimenti, non fosse altro per la carica che ricopre, c'è Grasso, il presidente del Senato. E mentre al Quirinale l'uomo che ha le carte in mano, Mattarella, sta a guardare, chiuso nel suo proverbiale silenzio, a valle il principe degli alchimisti del Palazzo, quel Giorgio Napolitano, che in 91 anni ha maturato una vera allergia per le urne e le consultazioni popolari, ha cominciato ad escogitare formule e a mischiare nomi e ingredienti.

Le voci del Potere dicono che abbia anche sondato Monti per sapere se fosse pronto ad accettare la poltrona di ministro dell'Economia in un ipotetico governo per il «dopo referendum». Se questa è la prospettiva, non fosse altro per la memoria di ciò che è stato, i tre quarti del Paese imploreranno, disperati, di votare subito.

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