N ell'epoca dei social network, in cui tutti sono connessi e twitta anche il Papa, è difficile immaginare l'emozione che dava la possibilità di poter colmare la distanza con un mito come era Montanelli, semplicemente scrivendogli una lettera, come a un amico. E di questa possibilità i lettori approfittavano eccome: per raccontare i problemi della loro città, chiedere un consiglio sulle elezioni, rievocare un aneddoto di guerra, dire quanto si fossero trovati in sintonia con questo o quell'articolo, o esprimere il loro disaccordo. Le lettere arrivavano a pacchi ogni giorno e, se avete mai avuto un dubbio in proposito, ve lo tolgo: venivano lette tutte. Eravamo in tre a dividerci questo compito: Adriana, che di quella pagina era la «domina» indiscussa, Luciana e io.
Abbiamo decifrato calligrafie illeggibili, ricostruito indirizzi improbabili, scoperto storie sconosciute, che ci hanno fatto sorridere, commuovere, a volte indignare, spesso imparare. Poi si dividevano in mucchietti ordinati (il computer era di là da venire): le lettere d'interesse generale da pubblicare, quelle troppo personali, a cui era meglio dare risposta privata - c'era per questo il prezioso Antonio Cattaneo, collega in pensione - e infine quelle da consegnare al direttore. E qui la decisione si faceva difficile: meglio quella su Galeazzo Ciano o quella sulla scuola dove non si insegna più il latino? Si finiva per dargliele tutte e due: sapevamo che le avrebbe trovate interessanti allo stesso modo. O quanto meno, le avrebbe fatte diventare tali.
Non ricordo che ne abbia mai respinta nessuna, del resto. Le teneva un paio di giorni: poi, le restituiva con la risposta, siglata con il suo svolazzo inconfondibile. Il momento della verità veniva la sera, quando gli si portava la pagina appena stampata: perché lui la leggeva tutta, dal titolo centrale all'ultima lettera.
24 aprile 2014
Adriana Macchetta
Fin dall'inizio il numero delle buste che quotidianamente arrivava in redazione è stato in costante crescendo, con punte di varie centinaia quando qualche argomento importante catalizzava l'attenzione nazionale. Nascevano poi i collaboratori fissi, coloro che leggevano il Giornale di buon'ora, dalla prima all'ultima pagina, tanto che prima di mezzogiorno in redazione abbiamo cinque, sei lettere della stessa mano, di commento degli articoli più importanti. I lettori cominciavano anche a sentirsi «padroni» della pagina, protestavano se qualche lettera non era di loro gradimento, se il tono dell'insieme non era quello giusto (per loro), se certe firme comparivano troppo sovente. Erano le lettere che sotto sotto ci facevano più piacere perché nel loro tono severo, a volte bizzoso, dimostravano quanto i lettori sentissero come cosa propria il Giornale, magari in virtù - come scrisse più d'uno - delle sei-settecento lirette giornaliere che spendono per acquistarlo.
Il massimo fu raggiunto da quel fedelissimo che andò all'Ordine dei giornalisti per farsi riconoscere, con l'iscrizione all'Albo dei pubblicisti, l'assiduità delle sue lettere al Giornale. La delusione per il rifiuto oppostogli si riversò in una lettera amara, ai margini dell'offensivo per tutti noi. Gli è passata. Scrive ancora.
Ci sono momenti nei quali i lettori smettono di gareggiare fra loro nel tentativo, magari inconscio, di ottenere la posizione centrale, con la risposta pubblica, per trasformarsi in un esercito eleggendo il direttore generale in capo.
Insieme, offerta dopo offerta, magari a costo di sacrifici, sanno raggranellare somme ingenti per aiutare chi si trova in stato di necessità, siano i terremotati del Friuli o dell'Irpinia o una bambina che necessita di cure costosissime. Non chiedono mai rendiconti né ringraziamenti. A loro basta aver partecipato.25 giugno 1984
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