Rimini - E vengono in mente le file di ombrelloni, la movida delle notti bianche, l'Adriatico placido e verde, il divertimentificio più lungo d'Italia. Ma c'è una strada che si chiama Santa Cristina e dal centro della città va verso l'interno, verso le campagne coltivate a pesche e viti. E qui c'è il carcere. Nelle serate di vento, si può sentire l'odore del mare. Ma nelle celle della prima sezione del carcere di Rimini quell'odore non lo possono sentire. Perchè è sopraffatto dall'odore dei corpi, del sudore di uomini pigiati insieme uno sull'altro. E, quel che è peggio, dall'odore dei loro scarichi.
Benvenuti nel carcere di Rimini. Forse non il peggiore dei carceri d'Italia, soprattutto nelle due sezioni rimodernate. Ma sicuramente l'unico carcere, tra quelli visitati fin qui dal deputato Alfonso Papa nel suo giro d'Italia tra le sbarre, dove la promiscuità forzata è spinta fino al punto più abbruttito e inverosimile. Per le loro necessità fisiologiche i detenuti non hanno un gabinetto, non hanno un angolo che separi almeno la loro vista - se non gli odori e i rumori - da quella dei compagni di cella. No. La tazza è in un angolo della cella, accanto alle brande. Quando scappa, il detenuto si siede. I compagni di cella un po' si girano, un po' fanno finta di niente, un po' - perchè alla fine l'essere umano riesce ad abituarsi a quasi tutto - scherzano e chiacchierano. Un'abitudine forzata alla convivenza che non cancella l'assurdità, il disprezzo per l'essere umano sottintese ad un simile trattamento.
Alfonso Papa ha conosciuto di persona, e da detenuto, una delle facce peggiori dell'universo carcerario italiano, la prigione napoletana di Poggioreale. Ce lo chiusero l'anno scorso di questi tempi, il 20 luglio, col voto favorevole della Camera, per l'accusa di concussione per l'inchiesta P4. Lo scarcerarono alla fine di ottobre. Una settimana dopo, la Cassazione stabilì che in cella non ci sarebbe dovuto mai finire. Da allora, Papa si è dedicato a tempo pieno alla causa dei detenuti, soprattutto a quelli in attesa di giudizio. Ha visto prigionieri eccellenti come Lele Mora e disperati senza nome e senza avvocato. Non si impressiona facilmente. Ma ieri, quando esce dal carcere romagnolo insieme a Claudio Marcantoni dell'associazione Papillon, nella sua voce si sente l'indignazione: "Se in Italia fosse stato ratificato il reato di tortura, questo ne sarebbe l'esempio più lampante".
Il carcere di Rimini è, cronologicamente parlando, un carcere moderno: anno di nascita 1972, nel pieno dell'emergenza carceri. Costruito con tutti i crismi dalla tangente e del lavoro malfatto, vent'anni dopo cadeva già a pezzi. Oggi due sezioni sono state ristrutturate, e sono posti civili. Un piccolo reparto a custodia attenuata è un esperimento avanzato e dal volto umano. Ma una intera sezione, la seconda, è stata chiusa per cause di forza maggiore, "perché non c'erano le condizioni minime di vivibilità e di decoro", spiega Papa. E vengono i brividi a pensare che dovesse essere, se invece viene tenuta aperta la prima sezione, quella dei cessi in piena cella.
Non bisogna pensare, oltretutto, che il sordido rito delle deiezioni in pubblico avvenga tra pochi intimi. Nelle celle della prima sezione ci sono celle da quattro persone che ne ospitano dodici. A turno si alzano dalla branda, a turno si sgranchiscono le gambe. A turno si siedono sulla tazza. E se qualcuno riesce a essere così bestia da pensare "ben gli sta", e che anche fare i bisogni davanti a tutti faccia parte delle punizioni che uno Stato può infliggere, Papa ricorda che "anche nel carcere di Rimini più della metà dei detenuti, 90 su 193, è in stato di custodia cautelare. Non hanno avuto una condanna definitiva, quindi per la nostra Costituzione sono innocenti".
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