Caso Albania, il bagno di realtà dei giudici sui Paesi sicuri

Nelle decine di pagine fitte di argomentazioni giuridiche non sempre di agevole lettura, fa irruzione all'improvviso quella voce nitida che si chiama "principio di realtà"

Apertura anno giudiziario a Roma, foto di repertorio
Apertura anno giudiziario a Roma, foto di repertorio
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C'è una frase illuminante nell'ordinanza depositata il 30 dicembre con cui la Cassazione indica la sua linea interpretativa sui respingimenti dei «richiedenti asilo», sconfessando in buona parte i provvedimenti con cui il tribunale di Roma ha liberato i dodici profughi trasferiti dal governo nel centro di detenzione in Albania. Nelle decine di pagine fitte di argomentazioni giuridiche non sempre di agevole lettura, fa irruzione all'improvviso quella voce nitida che si chiama «principio di realtà»: la consapevolezza che esiste il mondo dei nobili princìpi e dei buoni sentimenti, e che esiste il mondo con cui anche la giustizia deve fare i conti, il mondo reale che spesso non è né nobile né buono. È a questa dolorosa concretezza che la Cassazione richiama i magistrati romani che hanno annullato i trattenimenti dei dodici profughi dall'Egitto e dal Bangladesh. E che questo richiamo venga da una sezione della Cassazione insospettabile di simpatie meloniane lo rende ancor più benaugurante. Il semplice, comune buon senso alla fine prevale.

Il passaggio sta a pagina 25 dell'ordinanza emessa dalla Prima sezione civile ed affronta uno dei temi chiave: può essere considerato sicuro un Paese in cui alcune categorie particolari di cittadini siano discriminate e perseguitate? I giudici romani che hanno liberato i profughi rispondono di no. La Cassazione dice, invece, che questa interpretazione «postula la elaborazione di una nozione di Paese di origine sicuro che, pur certamente auspicabile dal punto di vista ideale, non tollera alcun margine di insicurezza personale». È quell'inciso, «pur certamente auspicabile dal punto di vista ideale», a costituire il richiamo alla realtà inviato dalla Cassazione ai colleghi del tribunale di Roma (e ai tanti magistrati che hanno difeso le loro tesi).

Non è una dichiarazione di resa di fronte alle discriminazioni: se un profugo farà valere il suo status di perseguitato (politico, religioso, sessuale o quant'altro) continuerà a trovare asilo in Italia.

A essere impraticabile è l'accoglienza generalizzata anche di profughi che, come in questo caso, non hanno mai dichiarato di appartenere alle categorie «a rischio» in Egitto e in Bangladesh. Perché non si può pretendere di considerare sicuri solo i Paesi ove «le condizioni di sicurezza debbano essere rispettate e soddisfatte egualmente per tutti gli individui».

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