Chi strumentalizza la fede crea un danno alla Chiesa

Chi strumentalizza la fede crea un danno alla Chiesa

H o atteso alcuni giorni prima di dare corpo e voce al disagio che cresceva in me dopo il coup de théâtre salviniano - con l'uso esplicito del rosario e di espressioni che di solito appartengono al vocabolario dei papi - e le polemiche seguite con numerosi improvvisati maestri di cristianesimo, che d sinistra hanno creduto opportuno di dover dare a Salvini una lezione non solo di laicità ma anche di fede. D'un tratto, dunque, l'Italia si è riempita di professori di religione, di esperti di cose sacre.

Tuttavia non ha senso stabilire se le cose dette, da una parte e dall'altra, siano giuste o no, e non è neppure interessante sapere se qualcuna di queste persone, Salvini in testa, frequenti poi fedelmente la santa messa e i sacramenti.

La domanda vera è: perché si è arrivati a questo? Cosa ci racconta questa vicenda? Che finestra spalanca su questo nostro Paese? E, più ancora: cosa aggiunge e cosa, viceversa, toglie alla nostra vita?

Le parole non sono suoni, emissioni di voci: sono corpi, che esercitano effetti, deviano i percorsi, fanno crescere o diminuire. Il fatto che le dichiarazioni di un politico, non solo le sue decisioni (pensiamo alla guerra dei dazi tra Usa e Cina) ma perfino i suoi umori possano incidere sull'andamento della finanza è il segno di una legge generale. Le parole incidono su molti altri indici, su molti altri grafici assai meno visibili o registrabili.

Il primo aspetto che colpisce è la condizione difficile che la Chiesa si trova ad attraversare, nel tempo presente. Tutte le condizioni sono sempre difficili, nella Chiesa, e non penso che, studiando a fondo la sua storia, si possano rintracciare molti periodi nei quali il suo cammino sia potuto procedere con il vento in poppa, nella generale unanimità. Ogni papa, nell'istante in cui viene eletto, trova dei nemici tra coloro che dovrebbero essere suoi collaboratori: sono quelli che non lo volevano - uomini capaci, intelligenti, talora perfidi, politici avvezzi alle sottigliezze assai più di un parlamentare italiano, eppure spesso anche uomini di grande fede. Perché la natura umana è fatta così, e tiene insieme tante cose diverse tra loro.

Quante crisi ha passato la Chiesa nei suoi duemila anni di storia. Talune ben peggiori di quella presente (pensiamo solo al periodo avignonese, allo scisma anglicano, alla riforma luterana): eppure la Chiesa è sopravvissuta perché non è sulla gerarchia che si regge. Nei momenti più difficili sono sempre sorti dei grandi santi: loro sono il centro della vita della Chiesa. Il santo non è necessariamente un uomo straordinario, e il suo ruolo nella Chiesa è quello di ricordare ai cristiani che la santità è una condizione alla quale tutti gli uomini sono chiamati.

Le crisi però sono spesso molto differenti una dall'altra. Oggi esiste una parte dei fedeli che non ha fiducia in Papa Francesco, e lo contesta apertamente.

Chi agisce (e scrive, e parla, e pensa) in questo modo, sa che far parte della Chiesa vuol dire - anche - accettare che a far procedere la storia non è l'uomo, ma Dio. Per questa ragione, forse ingenuamente, io tendo a seguire il Papa anche quando non lo sento a me vicino, perché penso che anche la diversità di vedute possa essere un'occasione per far camminare la mia fede: il Papa è lì per questo: segno della sovranità di Dio sulle deboli opinioni umane (ivi incluse quelle del Papa stesso). La Chiesa ha sempre usato in questo modo perfino la discordia e l'errore, che sono poco auspicabili ma che non si possono evitare.

Con questo, non penso che i nemici di Papa Bergoglio, e ne conosco diversi, siano uomini senza fede. Trovo perfino comprensibile che qualcuno, come Salvini, abbia usato il cristianesimo - così come hanno fatto coloro che gli hanno risposto - per far leva su una ferita profonda, ben visibile nella Chiesa, forse allo scopo di acquistare consensi, o forse per qualche altro motivo più nobile di cui in questo momento, chiedo scusa, non m'importa nulla.

Quello che mi dà l'amarezza è ciò che va perduto in tutto questo parlare, in tutta questa agitazione di emozioni, di rabbia, di affettati trionfalismi, di dita sollevate in attitudine dottorale, e soprattutto di odio.

Mi spiego.

Se il cristianesimo si potesse ridurre ai valori di cui è portatore, potremmo dire che alcuni dei suoi valori sono di destra, altri di sinistra. Di destra sono la famiglia, l'obbedienza, la difesa della vita, di sinistra sono la libertà, la giustizia sociale, la giusta mercede. E così via.

Da quello che ho sentito in questi giorni, l'Italia non è mai stata così rigurgitante di valori cristiani, da una parte come dall'altra. Ma è di questo che ho paura, ed è per questo che ho care le parole di san Giovanni Paolo Secondo quando definì il cristiano un uomo «senza patria».

Ma il cristianesimo, semplicemente, non è una somma di valori, non è una teoria, probabilmente non è nemmeno una religione nel senso canonico della parole. Il cristianesimo è un uomo, soltanto un uomo: Gesù di Nazareth, nato a Betlemme da Maria, accusato di bestemmia, processato e crocefisso al tempo di Ponzio Pilato, morto, sepolto e risorto. Il potere si può appropriare di tutti i suoi valori, non dell'uomo, ed è in quell'uomo che un cristiano spera, è quell'uomo che un cristiano ama.

Mi torna alla mente il Discorso dell'Anticristo di Vladimir Solov'ev, del 1899, poi incluso nei suoi celebri Tre dialoghi. Anticipando il genere cosiddetto distopico, questo racconto immagina un futuro europeo dominato dalla figura di un Imperatore generoso e magnanimo, uomo di grande cultura, fine intellettuale, che conquista il potere assoluto più grazie al proprio fascino, alla propria irresistibile piacevolezza che alla forza o tantomeno alla violenza. Dimostra un grande interesse per la religione, ha perfino ricevuto una laurea ad honorem in teologia a Tubinga, ma in fondo la ritiene inutile poiché tutti i valori del cristianesimo sono sussunti dal suo governo, e non si capacita del perché proprio la Chiesa ortodossa gli sia nemica.

L'Imperatore fa un passo verso questi «strani uomini», li incontra, cerca di convincerli che, se si mostreranno collaborativi, troveranno in lui l'autorità spirituale adatta, si presenta come difensore della «santa tradizione» cristiana, annuncia l'apertura di un grande museo di archeologia cristiana, chiede ai religiosi la collaborazione «per riavvicinare, quanto più possibile, i costumi e le usanze della vita attuale alla tradizione e alle istituzioni della Santa Chiesa Ortodossa».

Poi l'Imperatore chiama a sé tutti i membri della Chiesa disponibili a collaborare, e quasi tutti corrono da lui con grida di gioia.

Ma lo starets Giovanni, il più anziano tra i prelati, non si muove. L'Imperatore, colpito da tanta ritrosia, si rivolge a lui, al Papa Pietro II che è rimasto con lui, e rivolge loro queste parole:

«Strani uomini! Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento popolare; che cosa avete di più caro nel cristianesimo?».

«Grande sovrano!» risponde lo starets. «Quello che noi abbiamo più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità».

Centoventi anni fa, come adesso, qui sta il problema nel rapporto tra cristianesimo e potere. Questo non significa che un cristiano non possa (e, in certe circostanze, non debba) assumersi l'onere dell'impegno politico. E nemmeno che debba essere esente dall'ambizione, dall'ansia di protagonismo. Tutto questo può accadere. Ma c'è una differenza che non può essere eliminata, ed è questa: che nessun uomo, per quanto devoto, può illudersi di realizzare il cristianesimo sulla terra, perché il cristianesimo è Gesù Cristo, quell'uomo, quel corpo.

Mi pare che questa sia la

posta in gioco, oggi. Non i principi o i valori cristiani, ma ciò che tra tutti questi principi e valori rischia di andare perduto: quell'uomo, Gesù di Nazareth, in cui «dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità».

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