In occasione della Giornata per le vittime del Covid, per gentile concessione dell'editore Historica, pubblichiamo un estratto del Libro nero del coronavirus di Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini.
«I ragionamenti, chiaramente, si fanno sui dati ufficiali – ci racconta una insegnante della zona – ma la situazione, qui a Bergamo, è stata molto peggiore di quei numeri». A Nembro e ad Alzano Lombardo, come in tutti i paesi della Val Seriana, a parte gli ospedalizzati, moltissime famiglie si sono chiuse in casa a lottare per la vita. «Anche se non ci hanno colpiti direttamente, sentiamo il peso di tutti quei lutti e, purtroppo, ora che la situazione sta lentamente migliorando e la mente è più lucida, iniziano a emergere grandi domande su come è stata combattuta questa emergenza».
Il 15 maggio, dieci giorni dopo l’inizio della «fase 2», i pazienti Covid nelle terapie intensive delle Asst Bergamo Est e Bergamo Ovest si sono azzerati. Il peggio sembra passato. Nei giorni di picco i malati ricoverati erano circa duecento. Nessuno, però, può accantonare il dolore. «Abbiamo vissuto giorni tremendi a contare i morti nei nostri quartieri – racconta ancora l’insegnante – a vedere ambulanze e a chiederci per chi dei nostri condomini fossero venute...». Chi ha patito l’orrore di quei giorni ci racconta di quanto fossero poche le bombole di ossigeno a disposizione: «Ad un certo punto questo ha portato alcune persone a telefonare alle famiglie dei defunti per sapere se per caso gli era avanzata mezza bombola». E chi ha visto morire il proprio caro in casa, a volte ha dovuto attendere anche fino a quattro giorni prima di veder arrivare qualcuno a ritirare la salma. «Tutta l’Italia è stata colta impreparata dal coronavirus – ci raccontano – ma Bergamo è stata una terra abbandonata a se stessa».
Molti, infatti, non riescono a «digerire» le campagne di certi politici che, a inizio epidemia, hanno invitato i concittadini a condurre una vita normale. O perché, dinanzi ai grafici in salita, gli impianti sciistici siano comunque rimasti aperti fino ai primi di marzo. Negli occhi dei bergamaschi sono ancora vivide quelle fotografie che immortalano le loro montagne, affollate di sciatori sotto il sole primaverile, nello stesso fine settimana in cui il governo dispone ulteriori restrizioni per evitare che il contagio dilaghi. Sono stati anche questi atteggiamenti sconsiderati a portare il virus nelle altre valli, la Val Brembana e la Val di Scalve? «Prima avevamo tutti paura, adesso abbiamo tanta rabbia – ci spiega l’insegnante – bisogna andare a fondo di questa vicenda: sicuramente non cambierà il nostro dolore né servirà a cercare un qualche responsabile da mettere in croce, ma abbiamo il diritto di sapere come è potuta accadere questa strage».
I numeri, appunto, sono quelli di una strage. Sul calare estivo dell’emergenza L’Eco di Bergamo conduce un’attenta indagine tra i Comuni bergamaschi per cercare di svelare il numero esatto delle persone morte nel solo mese di marzo. «Sono 5.700, di cui 4.800 riconducibili al coronavirus – si legge – quasi sei volte in più di un anno fa. I numeri ufficiali, invece, dicono che al 31 marzo erano 2.060 i decessi certificati positivi al Covid 19». Un’ecatombe, insomma.
Bergamo, Milano, Roma. È su questa direttrice che si gioca la drammatica partita bergamasca. «Ricordo quei momenti, ricordo una situazione comprensibilmente discussa. Maneggiavamo tutti delle incertezze: noi tecnici stavamo dando un consiglio che non avremmo mai voluto dare e chi ci governa doveva prendere decisioni che non avrebbe mai voluto prendere», racconta una fonte della task force di Regione Lombardia.
Perché non è stata fatta alcuna zona rossa? Chi doveva agire, alla fine non si è mosso. «Se fossimo stati più convincenti, forse avremmo guadagnato anche solo tre o quattro giorni nella decisione del governo e avremmo limitato i danni».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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