Chiesa e potere: il caso russo

Il professor Cesare Alzati, eminente figura accademica negli studi della Chiesa, ci aiuta a tracciare alcune linee interpretative di un legame poco compreso in Occidente tra la Chiesa ortodossa e il potere

Chiesa e potere: il caso russo

Nell’ambito dello scontro tra Russia e Occidente che si consuma ormai da mesi sul suolo ucraino viene spesso sottolineato il particolare rapporto che la Chiesa ortodossa manterrebbe con il potere, soprattutto dopo le dichiarazioni del marzo scorso dal pulpito della Cattedrale di Cristo Salvatore del patriarca moscovita Kirill [al secolo Vladimir Gundjaev nato a Leningrado nel 1946] a cui Felix Corley nei “Mikhailov Files” del 2018 attribuiva una comunanza con Putin nel Kgb. Nei fatti esiste una interpretazione fumosa per l'Occidente di cosa sia la Chiesa ortodossa che - va ricordato - al mondo conta 150 milioni di fedeli. Spesso è più semplice ricorrere a facili schematismi che sono però fuorvianti e antistorici. Il professor Cesare Alzati docente di Cultura e Istituzioni del Medioevo europeo presso l’Università Cattolica di Milano, eminente figura negli studi della Chiesa, ci aiuta ad individuare alcune tracce interpretative di questa realtà complessa e secolare.

Cominciamo dalle basi: cos'è e quando nasce la Chiesa Ortodossa?

«Credo sia importante una puntualizzazione del lessico. Parlare di Chiesa Ortodossa nell’accezione istituzionale corrente è legittimo solo a partire dalla metà del XV secolo, quando a Costantinopoli si organizzò la “Sinodo Ortodossa” in contrapposizione ai seguaci dell’Unione di Firenze (1439); precedentemente si parlava di “Greci” e “Latini” indicando la diversità di usi rituali e disciplinari, nella condivisione di un medesimo patrimonio dogmatico e nella piena continuità della comunione sacramentale. Analogamente l’espressione “Chiesa Cattolica”, nell’accezione corrente, è conseguenza della contrapposizione determinatasi in Occidente nel XVI secolo tra seguaci della Riforma (Protestanti) e seguaci della Chiesa (latina) quale si presentava, oltre che nel proprio centro istituzionale romano, dovunque si fosse dilatata. Fino a tali contrapposizioni dialettiche, tutte le Chiese si dicevano analogamente ortodosse (testimoni della retta fede) e cattoliche (appartenenti a una comunione estesa a tutto il mondo).

Per gli occidentali la Chiesa ortodossa è percepita come un’unica realtà nata da uno scisma con la Chiesa di Roma, invece non è così.

«Parlare di Chiesa come un corpo ecclesiastico unitario e compatto per l’età antica, medioevale ed anche moderna, è sostanzialmente un’astrazione. Nell’unità di fede e nella reciproca comunione, gli organismi ecclesiastici presentavano un’ampia articolazione istituzionale pienamente accettata nella sua legittimità. Lo vediamo anche in rapporto all’episodio del 1054 [data storica dello scima tra cattolici e ortodossi ndr] in cui a Costantinopoli il cardinale Umberto di Silvacandida e il patriarca Michele Cerulario si lanciarono reciprocamente la scomunica ovvero l’estromissione della comunione sacramentale. L’episodio è stato fortemente enfatizzato dalla storiografia a partire dall’età moderna. Significativamente però nessun cronista a Costantinopoli ritenne di doverne fare menzione. Del resto, a Costantinopoli il nome del papa di Roma già nei decenni precedenti non veniva più commemorato; mentre continuava a compiersi ad Antiochia e altrove nell’Oriente. Di fatto, fu con l’instaurarsi in Oriente dei crociati e del loro apparato ecclesiastico che, in seguito a contrasti e intolleranze allora determinatisi, la comunione tra Latini e Greci s’interruppe in modo diffuso, ed iniziarono ad essere elaborate (nelle Università occidentali e nell’ambito monastico orientale) le argomentazioni teologiche volte a legittimare tale cessazione dei rapporti sacramentali. La Chiesa Ortodossa non è, dunque, conseguenza di uno scisma rispetto a Roma: Greci e Latini, pur conservando tra tensioni e rotture momentanee la piena comunione ecclesiale, a un certo punto interruppero i loro rapporti e continuarono a vivere e svilupparsi in reciproca estraneità.

La percezione che oggi l’Occidente applica alla Chiesa russo ortodossa è di sudditanza al potere statale, in realtà si tratta di un legame generato da un racconto storico-filosofico particolare.

«Il rapporto tra istituzioni ecclesiastiche e autorità politica è questione che ha segnato l’intera storia cristiana, in Occidente come in Oriente. Ricorrere a facili schematismi non può che risultare fuorviante. Non è raro veder oggi applicata all’Oriente cristiano la categoria di “cesaropapismo”. A parte l’incongruità storica di tale termine (la dialettica contrapposizione tra ambito civile ed ecclesiastico, così come l’affermazione di un diretto controllo papale sull’intero apparato ecclesiastico sono di fatto pure astrazioni teoriche), non va dimenticato che il termine stesso di "cesaropapismo" nasce in Occidente in ambito protestante nell’età dell’assolutismo (Justus Böhmer) per designare la relazione tra monarca e istituzioni ecclesiastiche. La Moscovia, invece, si è storicamente sviluppata sulla scia della tradizione istituzionale romana vissuta a Costantinopoli, tradizione che riconosceva all’autorità dell’imperatore una responsabilità nei confronti della vita ecclesiastica, alle cui esigenze egli solo – nell’universalità del suo potere – poteva adeguatamente provvedere, come ben evidenziano i concili ecumenici (che i soli imperatori erano in grado di convocare).

Quale fu la strada percorsa?

«A Mosca le istituzioni ecclesiastiche, con a capo il metropolita (e dal 1589 il patriarca), acquisirono nel contesto del Gran Principato, e poi dell’Impero, un rilievo tale da determinare una concreta forma di diarchia, che conobbe il suo culmine nella prima parte del Seicento, quando a fianco dello zar Michele operò la potente personalità del padre di lui, Fëdor, divenuto monaco col nome di Filarete e successivamente asceso alla cattedra patriarcale (morto nel 1633). Nel 1721, lo zar Pietro I, nel contesto delle sue riforme occidentalizzanti, volte a garantirgli un potere incondizionato, abolì il patriarcato, sostituendolo col Santo Sinodo (un ristretto collegio di ecclesiastici e laici operanti sotto la direzione dell’oberprokuror, “l’occhio dello zar”). Il modello cui Pietro s’ispirò era quello delle Chiese luterane del Nord Europa, rette da un Konsistorium. Iniziava in tal modo in Russia un regime (lo zarismo ecclesiastico), di matrice occidentale e protestante, che segnò una frattura rispetto alla precedente tradizione canonica ortodossa e che durò fino alla rivoluzione del 1917, quando il concilio della Chiesa Russa ripristinò il patriarcato. Dopo la feroce persecuzione sovietica, nel 1943, nel contesto della Grande Guerra patriottica, Stalin permise che nuovamente fosse eletto un patriarca. La vita ecclesiastica progressivamente riprese, ma – nel quadro di un’ideocrazia totalitaria – non poté svilupparsi che entro precisi limiti e sotto un rigido controllo statale, continuato fino al crollo dell’Unione Sovietica e delle sue strutture di governo.

In un territorio dove solo 50 anni fa le manifestazioni religiose erano abolite e i luoghi santi dismessi cos’è in effetti oggi la chiesa nei paesi dell’est.

«Le Chiese sono sempre e dovunque luoghi di fede e di comunione con il divino. Quanto alle idealità che hanno caratterizzato nel tempo il pensiero e l’azione storica dei fedeli, per rispondere alla Sua domanda ritengo necessario risalire indietro nel tempo. Quanto seguì alla Prima Guerra Mondiale segnò la cancellazione del «paradigma romano», fino a quel momento riproposto dalle istituzioni imperiali che in qualche modo ne custodivano l’eredità. Tale cancellazione fu l’approdo di una seminagione ideologica che, alimentatasi dagli inizi del XIX secolo al pensiero idealistico di G. W. Fr. Hegel, a quel punto fu in grado di tradursi in una concreta realizzazione storica. Il rifiuto teoretico del Sacro Romano Impero - formulato da Hegel all’aprirsi dell’Ottocento nelle sue lezioni di Jena su "La Costituzione della Germania" -nasceva dal vedere nell’Impero il «sistema dello Stato pensato», cui Hegel contrapponeva il potere concreto dello Staat, estraneo a qualsiasi ideale universalistico, caratterizzato da una sostanziale autoreferenzialità e volto ad affermare un’assoluta autorità all’interno del proprio territorio. Di immediata evidenza risulta la radicale differenza sussistente tra siffatta percezione dello Stato e l’Impero (secondo la tradizione romana): istituzione quest’ultima anzitutto pensata, e finalizzata, nella sua universalità, a ricomporre armonicamente il molteplice nella pace. Guardando al 1918 in prospettiva, si potrebbe dire che proprio allora giunse a conclusione lo scontro tra Imperium e Staat, che Hegel aveva delineato. Finì il "tempo degli Imperi" e prese avvio il "tempo degli imperialismi", ossia la ricerca dell’egemonia da parte dei singoli Stati nazionali: a diversi livelli nello scacchiere europeo, e nel mondo attraverso il consolidamento dell’espansione coloniale. Non a caso, dopo un ventennio dai trattati di pace, l’Europa degli Stati sarebbe piombata in un nuovo e ancor più terribile conflitto. La cosa non fu senza riflessi anche sul piano ecclesiastico.

In ambito ortodosso l’atteggiamento che ne consegui fu l'interpretazione delle istituzioni ecclesiastiche in prospettiva nazionale, in uno stretto legame con le costituitesi realtà statuali delle singole nazioni che assunse il nome di Filetismo (o Etnofiletismo) ed ebbe solenne condanna fin dal 1872 ad opera dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Tuttavia l’onda lunga di tali evoluzioni del pensiero politico (e religioso) europeo non si è ancora completamente esaurita, e non soltanto negli ambiti di matrice ortodossa.

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