Colossi web tassati al 15%. Perché non cambia nulla

Il G7, su iniziativa americana, ha stabilito ieri che le grandi imprese dovranno pagare una tassa sui profitti, come minimo, del 15 per cento. È un bene o è un male?

Colossi web tassati al 15%. Perché non cambia nulla

Il G7, su iniziativa americana, ha stabilito ieri che le grandi imprese dovranno pagare una tassa sui profitti, come minimo, del 15 per cento. È un bene o è un male?

Ci sono dei paesi come l'Italia, per i quali quell'aliquota minima sarebbe un sogno, pensando che, con l'Irap, la tassa sulle imprese è quasi doppia. Ce ne sono altri, all'interno dell'Unione europea, come l'Irlanda, per i quali si tratterebbe di un aumento. Definire un'aliquota minima mondiale per le tasse sui profitti ha quindi rilievo solo per quei paesi che oggi sono particolarmente generosi, vale nulla per quelli, come Italia, Francia e Germania, che stangano gli utili aziendali.

Ai paesi ad alta tassazione gioverà poco questa nuova asticella. Cerchiamo di spiegarlo chiaramente. Il vero problema fiscale dell'attuale economia digitale, non è tanto il peso delle aliquote, ma il luogo in cui si realizzano ricavi e profitti. Facebook, Google, Apple ed in una certa misura Amazon (che però avendo i magazzini in loco, ha stabili organizzazioni in giro per il mondo) realizzano montagne di profitti che accentrano nella sede fiscale che stabiliscono a priori. Se Google realizza un fatturato di 100 in Italia e un relativo utile implicito, non lo paga totalmente nel paese in cui lo realizza. Per semplificare, poco importa se Google ora sarà costretta a pagare come minimo il 15 per cento su suoi utili, se ciò non avverrà laddove lo realizza, ma nella sede fiscale che essa ha scelto.

Il tema dunque non è la concorrenza fiscale, ma il fatto che le multinazionali digitali non pagano laddove realizzano i profitti. Il che, data l'immaterialità del servizio che svolgono, può essere inevitabile. Per questo motivo molti Stati europei si sono inventati la cosiddetta web tax. Essa non si basa sugli utili, ma sul fatturato realizzato. Che è più semplice da calcolare e da imputare nazione per nazione, ma che rappresenta una misura davvero rozza di tassare un'impresa.

Biden sta giocando una partita del tutto diversa. Il presidente americano ha intenzione di alzare le tasse sulle imprese al 28 per cento. Dunque teme più degli europei una possibile concorrenza fiscale. Inoltre vi è un aspetto politico. Per l'Ocse l'erosione fiscale non supera i 240 miliardi, e nella più ottimistica delle previsioni, gli Stati Uniti con la proposta di minimum tax potrebbero portarsi a casa 166 miliardi di gettito aggiuntivo: niente rispetto ad un deficit quest'anno pari al 33% del Pil grazie a stimoli fiscali da seimila miliardi di dollari.

Biden sa perfettamente che prima o poi quel buco dovrà pagarlo, e la via maestra è un aumento delle imposte sulla classe media americana. Per farlo bisogna prima colpire i ricchi (stesso principio della proposta di Enrico Letta sulla successione in Italia) così da rendere più digeribile la cicuta fiscale per gli altri.

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