L’epidemia da coronavirus va avanti. E, se si analizzano i numeri, si aprono praterie di terrore. Che quasi dispiace divulgare. In questi ultimi dieci giorni il numero di ricoverati, di persone in sala di rianimazione e di morti è aumentato in maniera esponenziale. Se continuasse così senza un rallentamento in meno di cinque settimane tutti gli italiani sarebbero malati. La Cina se la caverà probabilmente con 3mila/4mila morti. L’Italia rischia di averne molti di più. Lo scrive sull’Huffington Post, Luca Foresti, ceo di CentroMedico Santagostino.
Una brutta notizia. Occorre fare di più. Occorre prendere misure efficaci per tempo. Attualmente il numero totale di tamponi positivi cresce lentamente. Ma dipende dalla nostra incapacità di rintracciare tutti i malati. Negli ultimi giorni la situazione è molto migliorata: siamo passati dai 3mila campioni al giorno (media fino al 5 marzo) ai 5.700 campioni del 7 marzo. Ci si sta muovendo nella direzione giusta, ma bisognerebbe poter fare di più.
In Cina su questo punto sono stati molto più attivi. Solo a Wuhan c’erano 9mila persone che lavoravano a tempo pieno per rintracciare i contatti degli ammalati. Esiste in tutti i Paesi del mondo una rete di monitoraggio della comune influenza stagionale: vengono prelevati campioni a persone scelte casualmente per vedere se hanno contratto l’influenza e di che tipo. Si potrebbe impiegare questa rete per monitorare il coronavirus. "Ma come paragonare la situazione in Italia con quella cinese?", si chiede Foresti.
Prendiamo per semplicità il numero di decessi, che a meno di ritardi burocratici, dovrebbe essere il numero più affidabile. L’Italia nella prima settimana di marzo ha una situazione molto simile alla Cina nell’ultima settimana di gennaio. Sono paragonabili anche il numero di pazienti in terapia intensiva e il tasso di crescita in queste due date nei due Paesi. Finora l’andamento è molto simile. Se non verranno prese misure adeguate l’andamento italiano sarà quindi peggiore che in Cina.
Poi vediamo un altro data importante. Il 30 gennaio. Proprio in quei giorni in Cina si incominciava a vedere il rallentamento nell’aumento del numero dei morti e la fine della crescita esponenziale. Ma la Cina una settimana prima aveva istituito zone rosse che contenevano il 4% della popolazione. In queste zone c’erano misure severissime per prevenire il contagio: i trasporti erano stati soppressi, gli abitanti erano confinati nelle case, una persona per famiglia poteva uscire da casa ogni due giorni per comprare generi di prima necessità che erano portati nei negozi dall’esercito. Queste misure sono state essenziali per arrestare l’epidemia a livelli di contagio relativamente bassi in una grande città come Wuhan, dove i contagiati sono stati circa l’1% della popolazione. Da noi ci sono paesini dove si è arrivati a superare il 10%. E anche fuori dai focolai le misure adottate erano drastiche. In Cina, poi, una gran parte della produzione industriale era stata bloccata riducendo significativamente i contatti.
Il 3 marzo il presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, dichiarava: "Stiamo valutando l’opportunità di estendere la zona rossa sulla base di alcuni criteri epidemiologici, geografici e di fattibilità della misura". Le misure prese oggi 8 marzo sono state prese sfortunatamente con qualche giorno di ritardo, ritardo grave in una situazione in cui il numero dei morti aumenta di poco più del doppio ogni tre giorni. Le misure devono essere tempestive, altrimenti sono insufficienti e richiederanno restrizioni sempre più gravi nei giorni successivi.
Deve essere chiaro a tutti che le azioni di contenimento prese in Cina sono state estremamente pesanti.
Ma non bisogna dire che non sono realizzabili in uno stato democratico e che Italia non sarebbero possibili: è mancanza di fiducia nella democrazia. Certo, conclude Foresti, bisogna incominciare a farsi carico di coloro che subiranno le più pesanti conseguenze economiche e convincerli che con le mezze misure non si salveranno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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