Costretti a ballare sopra mucchi di spine. Bruciati nelle parti intime. E ammazzati. Una lettera inedita data al Giornale.it. Mai uscita che racconta l’orrore dei partigiani di Tito agli italiani.
Costretti “a camminare scalzi e sanguinanti ovunque - si legge nella lettera - sforzandoli a ballare insieme nei paesi che transitavano. Dovevano ballare perfino su mucchi di spine pungentissime, fino a calpestare ogni spino, torturandoli ferocemente anche alla presenza dei bambini (...). Le donne nel vedere tanta ferocia si nascondevano, mentre gli uomini che nei loro volti contratti si leggeva la loro disapprovazione di tanta bestialità e sadico furore, ma per timore di subire la stessa sorte, si limitavano soltanto a pregarli di portarli via al più presto (...) ma loro ignorando la più elementare norma della civiltà e anche la volontà di quella gente continuavano a torturarli facendoli ballare sotto la musica di una satanica armonica”.
Avrei preferito non leggerla. “Avrei preferito non leggerla mai”. Graziella Gianolla, 84 anni il prossimo 17 maggio, forte, senza una lacrima, sta qui davanti a noi, mentre tra le mani consuma una sigaretta sgualcita dalla rabbia. Una lettera scivolata per caso sopra al tavolo nella sua casa a Trieste e finita tra le nostre mani, racconta l’assassinio del padre e dello zio. I fratelli Gianolla. “Un infame, crudele, bestiale efferato ed il più feroce delitto”. Era il 31 gennaio 1944. Lei aveva nove anni, venne rapita da una banda di partigiani titini e slavizzata a forza.
Il Giornale.it l'anno scorso aveva già scritto di Graziella. Del suo rapimento. Della sua slavizzazione, la lettera però non era mai uscita. Il padre quella notte le disse “torno subito”. Ma non tornò mai più. “Quella notte - racconta - portarono via mio padre e mio zio e uccisero mio cugino. Ricordo tutto, stavano bombardando Trieste. Mio papà Aldo, si sentì chiamare. Prese lo schioppo, corse giù per le scale e mi disse: chiudi la porta perché vengo subito. I partigiani entrarono in casa, aprirono il negozio, presero mio padre e si sentì sparare. Da lì più niente. Io mio padre non l’ho più visto".
Graziella viveva a Momiano, un piccolo paese dell’Istria centrale. Il 6 ottobre i partigiani andarono a prendere lei e la madre, che non rivide mai più. Costretta ad assistere al sesso tra partigiani, Graziella per mano dei suoi aguzzini ci rimase dieci mesi. Prigioniera tra i boschi. Se è ancora viva lo deve al fratello che per lei, si finse partigiano. Ha provato a cercare la madre, ma conserva solo quell’ultima immagine, quando la scaraventarono su un cespuglio e poi più niente. Del padre, invece, sei anni fa una maestra di Trieste le suonò il campanello e le diede questa lettera.
La lettera è datata 21 ottobre 1991, sottoscritta a Fiume, indirizzata a don Parentin e firmata Matteo Zmak che riporta il racconto del testimone oculare che ha assistito al martirio. “Il feroce assassino dei poveri due uomini Gianolla (...) l’ho sentita raccontare dal testimone oculare, e non una, ma cento volte da un mio primo cugino, Zmak Giacomo”.
“Sfiniti dalle gravi torture subite, coi visi tumefatti, sanguinanti in più parti del corpo, quella mattina non capivano più nulla (...) – scrive - I due capi indemoniati li fecero torturare anche alla fine del loro Calvario: questa volta con le più inaudite torture: li fecero bruciacchiare nelle parti intime e i capelli con i rami di quercia coi fogli accesi. Poi soddisfatti chiesero dei volontari per l’esecuzione con l’alzata di mano”. “Li uccisero e li lasciarono lì, senza sepoltura alcuna".
E poi un riferimento a Graziella che viene menzionata in un articolo di monsignor Parentin di cui l'autore ne riprende le parole.
“Graziella, che ora – felicemente sposata – vive a Trieste. Perché di tante spine e moltissime lacrime qualche rosa si è salvata”. E infatti, Graziella, sta qui davanti a noi. Mentre insieme ci fumiamo l’ennesima sigaretta.
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