Covid, la memoria non diventi una lapide

Giusto ricordare, ma ancora tante le verità nascoste sul coronavirus

Covid, la memoria non diventi una lapide

“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate di pianto è forse il sonno/ Della morte men duro?”: l’interrogativo che apre i 295 endecasillabi sciolti di Ugo Foscolo “Dei sepolcri” ha sempre una sua potenza che supera il confine del tempo. Dubbio che poi il poeta di Zante scioglierà nell’utilità delle tombe come filo della memoria tra i vivi e i morti e anche come exempla per chi resta. Foscolo ne aveva discusso nel 1806 a Venezia con il letterato Ippolito Pindemonte nel salotto letterario di Isabella Teotochi Marin Albrizzi. E da quei ragionamenti aveva tratto ispirazione. E pensare che il culto della memoria, il culto dei morti così connaturato all’anima cristiana e cattolica degli italiani, e prima ancora all’Antica Roma dei Mani, in quel frangente era figlio dello spirito egualitario della Rivoluzione francese: era stato infatti Napoleone Bonaparte con l’editto di Saint Cloud nel 1804 (il decreto imperiale sulle sepolture, poi esteso all’Italia nel 1806) a disporre la sepoltura dei defunti all’esterno delle mura cittadine e con lapidi uguali per tutti. Il carme foscoliano è pietra miliare del culto della memoria, della cultura dei morti in Italia. Una tradizione antropologica, religiosa, sociale, culturale di grandissima fattura. Che ha incrociato anche la pittura, l’architettura, la musica, la scultura. La metà luminosa della memoria, di un filo che non va mai spezzato. In questo solco si pone la canonizzazione del 18 marzo come giornata del ricordo in nome di tutte le vittime del COVID. Anche la data scelta non è casuale: infatti il 18 marzo 2020 a Bergamo uno steward della Ryanair fotografò dal balcone di casa sua in Borgo Palazzo una dozzina di camion militari in colonna che uscivano da un lato del cimitero.

Dentro c’erano le bare di persone uccise dal coronavirus. Una spaventosa ondata di decessi che aveva mandato in tilt i servizi funebri di Bergamo e che mostrò all’Italia e al mondo in quale incubo eravamo precipitati. Eravamo tutti chiusi in casa dal 9 marzo, Bergamo città avrebbe perso in quel solo mese di marzo 670 abitanti con un incremento di decessi del 400% rispetto allo stesso periodo di anni precedenti. La provincia orobica avrebbe contato in quel marzo nero 5.919 vittime, 191 al giorno. Fu quella foto che fermò per sempre in uno scatto l’orrore in cui l’Italia e il mondo erano precipitati in pochi giorni. Il ricordo ha una dimensione doverosa, nobile, memorialistica, storica che è il valore intrinseco delle commemorazioni collettive: ben venga allora questo 18 marzo. Tuttavia c’è una metà oscura che ogni commemorazione di questo tipo porta con sé. Si ha cioè la sensazione, l’ombra inconsapevole, di orazioni, monumenti, giardini, lapidi, che rischiano di coprire con fini nobili anche obbiettivi più oscuri. Spesso la canonizzazione dei morti è servita nelle vicende italiane a seppellire anche le verità e persino i contesti in cui quelle tragiche scomparse erano maturate e venute a compimento. Appena due giorni fa è stato evocato il rapimento di Aldo Moro, 16 marzo 1978, via Fani a Roma. Uno dei più gravi atto di terrorismo politico nel mondo occidentale, la morte della Repubblica lo definì qualcuno. La lapide sul luogo del sequestro ricorda i nomi degli uomini della scorta del presidente della Democrazia Cristiana caduti sotto i proiettili delle Brigate Rosse: il maresciallo maggiore dei carabinieri Oreste Leonardi, il vicebrigadiere di polizia Francesco Zizzi, l’appuntato dell’Arma Domenico Ricci, e gli agenti di polizia Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Lo Stato, meglio una parte dello Stato, durante i 55 giorni del sequestro si mosse come se questi suoi cinque servitori non fossero mai esistiti, cercando la trattativa con chi li aveva uccisi. Trattativa che avrebbe implicato il riconoscimento delle Brigate Rosse come interlocutore politico legittimato dallo Stato. Certamente una vicenda molto complessa in giorni tumultuosi e drammatici in cui c’era in ballo la vita dell’uomo politico più importante d’Italia in quel momento. Dal 10 settembre 1992 nel porto di Livorno c’è una lapide, purtroppo molto grande, per ricordare tutte le 140 vittime del disastro del Moby Prince del 10 aprile 1991.

Come quel traghetto sia entrato in collisione quella sera con la petroliera Agip Abruzzo e cosa sia successo nelle acque antistanti al porto di Livorno è ancora avvolto tra i fumi di quello spaventoso rogo. In una piazza di Gorla, quartiere a nord di Milano, dal 20 ottobre 1947 c’è la scultura solenne e tragica di una mamma che tiene tra le mani il suo bambino, ormai senza vita. È sovrastata da una struttura in granito su cui sta scritto “Questa è la guerra”. Riferimento a perenne memoria di uno dei più orrendi massacri della Seconda guerra Mondiale. Il 10 ottobre 1944, in seguito a un errore nella rotta, i bombardieri del 451esimo stormo dell’aviazione militare degli Stati Uniti d’America si trovarono con l’arsenale già armato. Ma anziché liberarsi del loro carico esplosivo in aperta campagna o in mare, sganciarono sull’area a nord di Milano per ordine del colonnello James Knapp. Su Gorla e sul Precotto fu l’inferno: 342 bombe dal cielo uccisero 703 persone e distrussero 300 immobili, tra cui 250 abitazioni civili. Un ordigno cadde nella tromba delle scale della scuola elementare “Francesco Crispi” proprio mentre maestre e alunni stavano fuggendo nel rifugio antiaereo: morirono 184 bambini, 14 insegnanti, la direttrice della scuola e 5 assistenti scolastici. Gli americani erano i liberatori e non si poteva accusarli di una simile strage di innocenti per non passare da ingrati. Forse per questo riflesso sulla strage di Gorla e sulle responsabilità dei militari USA calò un silenzio durato praticamente fino ai giorni nostri.

Un silenzio vestito di rispetto per i piccoli “angeli di Gorla” e per le altre vittime. Che la giornata per ricordare le vittime del COVID non sia una lapide sulla ricerca delle molte verità che sono dovute anzitutto alla loro memoria. Sulle responsabilità del governo cinese nei primi decisivi giorni dell’esplosione dei contagi a Wuhan. Sulle contraddizioni dell’OMS. Sulle responsabilità del governo italiano per una seconda ondata assolutamente anomala. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità se tra febbraio e maggio 2020 il coronavirus colpì con un effetto-sorpresa e uccise 34.278 italiani, tra ottobre e gennaio, quando cioè l’effetto-sorpresa avrebbe già dovuto essere superato, sono stati 49.274; al 31 gennaio 2021 le vittime italiane del COVID erano 85.839. Il che significa che su 100 italiani morti per coronavirus ben 57 sono giunti dal 9 ottobre 2020 in poi, 9 mesi dopo il primo lockdown totale.

Ben venga la commemorazione collettiva delle vittime del coronavirus. Ma che le lapidi non seppelliscano le verità ancora da raccontare su quest’incubo a occhi aperti. Altrimenti il dubbio di Foscolo diventerebbe una certezza….

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