Prima dello "ius", fate la "schola"

La scommessa è persa senza premesse solide

Prima dello "ius", fate la "schola"
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Prima di parlare di Ius Scholae, è opportuno parlare di Schola. Non possiamo infatti dare per scontato che la scuola sia in grado di formare cittadini, nonostante il generoso impegno di chi ci lavora quotidianamente. Per questo, ridurre l'integrazione al conseguimento di un titolo di studio non sembra sufficiente. L'educazione, inclusa quella civica, è complicata e non sarà il tristemente famoso «pezzo di carta» a risolvere la questione. Purtroppo la scuola è sommersa di problemi. Non è in cima alle voci di spesa dello Stato. In certe classi, il numero di stranieri è così elevato da rendere difficile perfino l'insegnamento della lingua italiana. Soprattutto, la scuola è stata un terreno di conquista ideologica. Il risultato è stato drammatico. Pensate soltanto alla perdita di autorevolezza del corpo docente. È la conseguenza diretta di astruse teorie «democratiche», volte a ridurre la distanza (invece necessaria) tra professore e studente. Pensate anche alla invadenza ormai eccessiva delle famiglie, pronte a difendere il proprio rampollo anche qualora sia stato protagonista di performance negative o di una condotta insufficiente. I programmi poi mettono l'accento sulla didattica e trascurano i contenuti. In altre parole, si concentrano su «come» e non su «cosa» si insegna. In questo modo, diventa proibitivo trasmettere i valori fondanti della nostra società: il cristianesimo, l'illuminismo e la mentalità scientifica, per fermarci ai pilastri. La centralità dell'individuo, la parità dei diritti e la libertà d'espressione, per essere più concreti. Aggiungiamo che una malintesa tolleranza spinge talvolta le scuole a rinnegare proprio questo patrimonio ideale, con iniziative al limite del ridicolo ma comunque dannose. La cronaca è impietosa: la chiusura per il ramadan, il crocifisso rimosso, il Natale inclusivo che esclude Gesù. Come si può pensare di trasmettere la nostra cultura se noi stessi mostriamo di rifiutarla o addirittura di vergognarcene? È una partita persa, se la giochiamo così. In questo modo, diciamo allo straniero che la nostra identità consiste nel non averne una per accogliere quelle altrui. E lo incoraggiamo a chiudersi nel suo mondo, pur vivendo nel nostro, con o senza titolo di studio. Ben venga una riflessione su come integrare gli immigrati: è necessaria.

Il nodo centrale da sciogliere è la conoscenza della nostra civiltà. Noi stessi abbiamo bisogno urgente di un ripasso approfondito. Vogliamo affidarlo alla scuola? Bene. Allora occupiamoci più seriamente di «cosa» (e meno di «come») si insegna nelle aule italiane.

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