“Fuoco! C'è del fuoco nella cabina!”, seguito da un terribile e straziante “Stiamo bruciando!”. Sono le ultime parole dell’equipaggio dell’Apollo 1, rimasto intrappolato nel modulo di comando del secondo razzo Saturn, durante un'esercitazione sulla rampa di lancio numero 34 della Cape Canaveral Air Force Station, Brevard County, Florida. Era il 27 gennaio del 1967.
In pochi secondi, bloccati dietro il doppio portello che poteva essere aperto solo dall'interno con la capsula non pressurizzata, restano inermi e avvolti dalle fiamme i corpi di tre astronauti: Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee. La Nasa non si trova soltanto di fronte a una grave perdita di vite umane, ma ad un tragico fallimento che può compromettere per sempre la corsa alla Luna del suo lungo e complesso programma spaziale. Gli esperti cercano disperatamente una logica spiegazione. Cosa è successo nel modulo di comando 012? Come è possibile che tre astronauti diretti nello spazio abbiano perso la vita ancor prima di lasciare la Florida? È un quesito al quale neppure la Nasa è mai riuscita a rispondere con piena certezza.
I pionieri della missione Apollo
A scegliere quel nome “Apollo”, dio greco figlio di Zeus e protettore dei pionieri, che la Nasa avrebbe tenuto di lì per sempre, fino alla conquista della Luna e alla conclusione dell'intero programma, erano stati proprio loro: Grissom, White e Chaffee. Tutti ex piloti con grandissima esperienza di Aeronautica e Marina che si erano guadagnati la fiducia dell’agenzia spaziale americana impegnata a portare avanti un programma spaziale che nel pieno della Guerra Fredda non significava soltanto l’esplorazione dell’ignoto o il superamento dei confini in nome della scienza; ma prendenva la consistenza di una competizione di massimo rilievo con i sovietici, per il conseguimento di quelle tecnologie e conoscenze che potevano inibire e scoraggiare l’avversario fino al punto di farlo desistere, e ripianificare i suoi disegni di predominio sulla terra e nello spazio. Quel disastro improvviso però minacciava di fermare tutto. Ogni traguardo. Ogni progresso. Mettendo in discussione per oltre un anno la possibilità di raggiungere la Luna entro "la fine decennio", come aveva promesso nel 1961 il presidente John Fitzgerald Kennedy.
L’Apollo 1 infatti non mirava alla Luna, avrebbe solo dovuto vagabondare tra le stelle, come diceva Confucio nel suo celebre aforisma. L’obiettivo della missione infatti era quello di sperimentare tutti i mezzi e le attrezzature che sarebbero poi stati impiegati per raggiungere il piccolo e grigio satellite terrestre, che dista in media 384mila chilometri dal nostro pianeta e che a parlarne sembrava fantascienza. L’Apollo 1 avrebbe portato gli astronauti in orbita per poi farli rientrare sulla Terra, per provare ancora una volta lancio, rientro e procedure di recupero del modulo di comando - la punta estrema del razzo che misurava ben 68 metri dove c'era a malapena lo spazio per stare seduti nella fase di lancio e di rientro. Nel particolare, il test di quello sfortunato venerdì di gennaio simulava la sessione di lancio prima della partenza programmata per il 21 di febbraio.
Un tragico e inspiegabile incidente
Alle ore 13:00 secondo il fuso orario della Florida (Gmt+5), i tre astronauti, saliti nell’ascensore preposto alla rampa di lancio numero 34, presero posto nella capsula di comando del razzo Saturn versione IB, successiva al Saturn I. Il pesante portello pressurizzato viene chiuso e sigillato. White sedeva al centro, Chaffee alla sua sinistra e Grissom alla sua destra. I tre indossavano le tute spaziali e avevano con loro tutti i piani dei controlli pre-lancio che avrebbero simulato nelle normali procedure. Già nel primo pomeriggio si manifestarono i primi problemi di contatto con il centro di controllo. Nelle trascrizioni radio, le parole di Grissom, comandante della missione ed ex pilota da caccia veterano della Corea, riportano chiaramente: “Come possiamo andare sulla Luna se non riusciamo a parlarci neanche a distanza di tre edifici?”.
I problemi ai sistemi di comunicazione vennero risolti, e l’esercitazione portata avanti secondo i piani, fino al primo segnale di allarme, lanciato sempre per radio alle ore 18.31: “Ci sono fiamme nella cabina di comando” gridò Chaffe, che si preparava a diventare il più giovane astronauta che fosse mai andato nello spazio. Bastarono trenta secondi a innescare un incendio che, propagatosi nell’intera capsula, non lasciò scampo. Per cinque lunghi minuti gli addetti alla torre di lancio provarono invano ad aprire la capsula dall'esterno. Ma non c’era nulla da fare. I soccorritori, una volta violato il portello, poterono recuperare soltanto i resti carbonizzati degli astronauti e comunicare la brutta notizia a Washington, dove il successore di Kennedy, l'ex vice presidente Lyndon Johnson veniva messo al corrente della tragica notizia.
Il mistero sul punto di “detonazione”
Non appena terminato il profondo choc per la perdita di tre astronauti durante una semplice esercitazione di routine, la Nasa avviò una minuziosa indagine per scoprire le cause dell’incidente e fare in modo che il programma spaziale non si tramutasse in devastante fallimento. Molti, sia tra i membri del governo sia nell’opinione pubblica statunitense, non vedevano di buon occhio quell’enorme dispendio di risorse finanziare ed energie che potevano essere allocate altrove per migliorare le condizioni di vita dei contribuenti o per combattere “davvero” i comunisti. L’esplorazione dello spazio e la promessa fatta da Kennedy di “raggiungere e superare” l’Unione Sovietica che aveva sbalordito il mondo con il suo Sputnik nel campo di battaglia della “corsa allo Spazio”, stava per naufragare. Almeno fino a quando gli esperti non fossero riusciti a dare una spiegazione dell'accaduto per riportare il programma in auge e proseguire sulla rotta giusta.
Le indagini conclusero che un progetto da miliardi e miliardi di dollari rischiava di essere congelato per colpa di un cavo difettoso facente parte del sistema elettrico. Il semplice contatto provocò la scintilla che aveva innescato un incendio propagatosi con facilità a causa delle componenti di nylon e plastica che erano presenti nel modulo. La causa precisa e il preciso punto nel quale avvenne la detonazione, però, rimangono a tutt’oggi ignote.
Il rapporto finale consegnato nell’aprile 1967 elencò sei fattori principali che avevano contribuito alla tragica fatalità dell’incendio. In conclusione vennero formulate numerose raccomandazioni per apportare sensibili modifiche a livello progettuale e ingegneristico. Nonché una serie di cambiamenti nelle procedure per salvaguardare la sicurezza degli astronauti che avrebbero preso parte alle missioni successive, ai quali non era stato impartito un addestramento adeguato per evacuare la capsula a terra. Il controllo qualità dei componenti - che secondo alcuni era venuta meno in virtù dei budget e tempi ristretti costretti imposti dalla "corsa allo spazio" - aumentò la sicurezza complessiva del modulo di comando, del modulo di servizio e del modulo lunare (per quanto tutti ricordiamo bene il successivo incidente nella missione Apollo 13, ndr). L'astronauta Michael Collins, copilota di Aldrin e Armstrong nella missione Apollo 11 che porterà al fatidico allunaggio, affermerà in seguito: "È vero, l'Apollo 1 ha causato tre morti, ma credo ne abbia salvati più di tre in seguito". Quel sacrifico dunque, non era stato del tutto vano.
Un obiettivo da raggiungere, una promessa da mantenere
L’11 ottobre del 1968 - venti mesi dopo il disastro dell’Apollo 1 - il programma spaziale ripartì con la missione Apollo 7. Nel 1969 l’Apollo 11 raggiunse finalmente la Luna. Onorando la promessa fatta, e non meno lo sforzo e il sacrificio di tutti gli uomini e le donne che avevano preso parte al programma spaziale iniziato nel 1958 con Mercury e proseguito nel programma Gemini fino all’inizio di Apollo. Nella base di Cape Canaveral, sui piloni di cemento che un tempo sostenevano la rampa di lancio numero 34, ancora oggi una targa ricorda:
Nel 1971 il presidente Kennedy era morto da quasi un decennio, come lo erano anche i tre pionieri della missione Apollo 1. Dalla rampa di lancio di Cape Canaveral, l’equipaggio dell’Apollo 15 prese il volo, proiettato senza problemi oltre l’atmosfera terrestre per arrivare dritto sulla Luna. Portava con se, in gran segreto, un'altra targa commemorativa che prenderà il nome di “The Fallen Astronaut”. In memoria di tutti gli uomini che avevano perso la vita nel duro e sofferto tragitto che aveva portato l’uomo nello spazio. Un messaggio simbolico da lasciare con cura e profondo rispetto sul suolo lunare.
I nomi Virgil Grissom, Ed White e Roger Chaffee ora brillavano accanto a quelli di sei cosmonauti sovietici - tra i quali il leggendario Jurij Gagarin - e quattro astronauti statunitensi morti in incidenti di collaudo. In un modo o nell’altro erano tutti arrivati, attraverso ogni asperità, sino alle stelle.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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