Il boatos è di quelli assordanti per il contenuto e per gli effetti, ma come l'esperienza insegna quando si parla di Quirinale c'è da verificarne la fondatezza. Tra la pandemia che non dà tregua e i tanti punti interrogativi che ogni giorno si aggiungono sull'economia, Mario Draghi mediterebbe - il condizionale è d'obbligo - di rinunciare al Colle. Almeno è il proposito che avrebbe confidato ad uno dei suoi ministri più fidati. Dovrebbe essere una rinuncia pubblica, addirittura nella conferenza stampa di oggi o in settimana. Una rinuncia da padre della Patria accompagnata dall'intento di concentrarsi sull'attività di governo senza distrazioni e da un appello ai partiti affinché individuino una soluzione unitaria. Sarebbe un'uscita da manuale, impeccabile.
Voci del genere, però, vanno prese con cautela perché nella partita per il Quirinale tatticismi, falsi schemi, finte seguite da dribbling stretti sono all'ordine del giorno. Ma mettiamo il caso, per un attimo, che il ritiro di Mario Draghi dalla corsa sia fondato, che il proposito sia maturato di fronte alle difficoltà, che succederebbe? Ma, soprattutto, cosa significa «soluzione unitaria»?
Diciamo subito che di soluzioni unitarie ce ne sono di due tipi. Una banale, ovvia, senza ambizioni, da quieto vivere. Significa individuare una personalità di compromesso, con una mediazione politica al ribasso. Magari un personaggio con l'attitudine ad interpretare il ruolo del camaleonte, che assume colori cangianti al momento del bisogno, che abbia fatto il premier di governi diversi e che abbia dimostrato una capacità di galleggiamento tra la Prima e la Seconda Repubblica. Che sulla carta garantisca tutti, ma che poi nella realtà potrebbe anche non garantire nessuno. Uno, per fare un nome, alla Giuliano Amato.
Oppure il «trasformista» elegante. Una personalità che abbia avuto un grande ruolo in passato nel centrodestra ma che nel presente sia riuscito a farsi accettare con nonchalance, senza traumi, anche dal centrosinistra. Che abbia un'empatia naturale verso amici e avversari e una capacità innata non tanto a conquistare la fiducia di tutti, quanto a non farsi odiare da nessuno. Prototipo Pier Ferdinando Casini.
Sono tutte candidature degne e stimabili, solo che sul piano politico, con tutto il rispetto, sono appunto mediazioni al ribasso. Senza contare che gira che ti rigira sono personaggi che al di là delle relazioni e della vecchia militanza, per arrivare sul Colle hanno da sempre, o hanno dovuto accettare, il timbro del centrosinistra.
C'è poi un altro tipo di candidatura più ambiziosa, che è una vera scelta, che non acquista il carattere unitario su una mediazione, ma lo conquista con i comportamenti all'indomani dell'elezione. Candidati di parte che poi diventano presidenti di tutti. Nessuno osa dirlo in questo momento, ma otto dei dodici presidenti che si sono susseguiti al Quirinale hanno avuto questo percorso. Compresi Napolitano e Mattarella. Uomini di sinistra, eletti da una parte, che stando sul Colle hanno conquistato anche gli avversari.
Può succedere pure l'inverso, cioè un leader del centrodestra può essere eletto in Parlamento dal suo schieramento e spogliarsi un attimo dopo dei suoi colori per diventare il presidente degli italiani, senza distinzioni? O una simile prerogativa è appannaggio solo degli esponenti di sinistra Doc, o adottati, mentre sull'altro versante sono tutti figli di un dio minore? La risposta spetta al centrodestra.
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