L'intervento di Mario Draghi, in un consesso dei massimi cervelli del mondo organizzato dal Financial Times, è stato per me molto istruttivo. Il nostro ex premier ha illustrato il cattivo stato dell'Unione Europea indicandone le cause esterne e interne ad essa, ha previsto un peggioramento peraltro non catastrofico delle economie dei 27 Paesi (recessione in vista), ha infine proposto rimedi congrui, ardui ma indispensabili. Il tutto in maniera comprensibile persino ai giornalisti, che ne hanno riferito sui quotidiani di giovedì.
È stata molto istruttiva anche la reazione dei commentatori italici. Per la prima volta, davanti al verbo del presidente emerito della Banca centrale europea, nessuno, ma proprio nessuno, ha osato rifare il solito esercizio, cioè usare Draghi e le sue argomentazioni per svillaneggiare Giorgia Meloni, contrapponendola al predecessore. Hanno preferito darsi alla fuga. Se ci fosse in giro un po' d'onestà intellettuale, adesso sarei qui a riferire umili mea culpa da parte di politici ed editorialisti vestiti di sacco. In generale si è preferito evitare il confronto con il Draghi-pensiero da parte di chi non ce l'ha, pur di non dover ritrattare le proprie scemenze. Che cosa avevano sostenuto finora infatti gli adepti della «amichetteria» (geniale etichetta di Fulvio Abbate per la crème di sinistra): che l'Europa è inerte e fragile, lontana dalle utopie magnifiche dei suoi padri fondatori, per colpa dei cosiddetti sovranisti, in particolare quelli al timone in Italia, alleati con i nazionalisti ungheresi, polacchi, slovacchi eccetera. Draghi ha reso ridicola questa tesi: il leader dell'europeismo più cristallino, universalmente riconosciuto come tale, ha identificato l'elefante che, seduto sopra l'Europa, la schiaccia, e non si vuole spostare, anche perché l'élite tecnocratica e progressista lo protegge come se fosse un totem antifascista, figuriamoci. Super-Mario non cita e non allude in alcun modo a Meloni, Orbán, Duda e compagnia sovranista come ostacolo al «recupero di competitività» del Continente Antico (questo è l'incarico cui l'ha chiamato Ursula von der Layen): e come potrebbero essere accusati di averne causato la decadenza dato che non hanno mai avuto accesso alla stanza dei bottoni di Bruxelles?
Draghi frusta e incalza l'Elefante Immobile. La malattia dell'Europa sta lì, nel suo centro direzionale, nell'asse che da decenni domina l'Ue: quello del Reno, che associa Francia e Germania, un matrimonio di interesse dove Parigi esercita il primato politico (unico Stato, tra i 27, membro (...)
(...) permanente del Consiglio di sicurezza Onu, sola potenza nucleare) e Berlino quello economico. Questa diarchia sta portando l'Ue al disastro. Loro sì che sono sovranisti, non eletti da nessuno: sovranismo imperiale europeo. È questa spartizione del dominio continentale sulla base di visioni superate dalla storia, e a cui si oppongono sanamente le forze nuove, ad essere martellata da Draghi sui suoi sacri calli. Non possiamo più permetterci l'Ancien Régime regnante a Bruxelles. Non se lo possono più permettere se non vogliono andare in malora neppure Francia e Germania. Una volta usava dire: «L'Europa è un gigante economico, un nano politico e un verme militare». Le ultime due definizioni sono tuttora valide al quadrato. Ma si poteva sopravvivere finché il Gigante non ha cominciato a franare sui suoi piedi d'argilla.
Ovvio, questa è la mia parafrasi del discorso di Draghi, il quale ha finezza politica e diplomatica sufficiente a non urtare le permalosità galliche e teutoniche, ma di sicuro deve cambiare l'ordine delle cose.
Trascrivo qui le frasi forti di Draghi: «Il modello geopolitico sul quale l'Europa si è retta dalla fine della Seconda guerra mondiale - sostegno dagli Stati Uniti per la difesa, esportazioni dirette principalmente in Cina, approvvigionamenti di energia a poco prezzo dalla Russia - non esiste più». Cioè: ciao Germania, locomotiva spompata. Pertanto, al fine di poter resistere nel mondo di oggi, «l'Europa ha bisogno di molta, molta più integrazione». «Occorre razionalizzare le spese per la difesa, diventando anche in questo campo una vera unione anziché un gruppo di Paesi in competizione tra loro». Cioè: ciao Francia, la bomba H. Già ora le spese militari dei 27 sono nel loro insieme seconde solo a quelle degli Usa. «O l'Europa agisce insieme diventando un'Unione più profonda, capace di esprimere una politica estera - oltre che economica - e una politica di difesa comune, oppure non sopravvivrà se non come mercato unico». Cioè: unione doganale di microbi, senza nessun peso nel mondo. Se si vuole avere un destino degno dei nostri Padri serve una maggiore unità e «non scendere mai a compromessi sui nostri valori fondamentali». Cioè: libertà e radici cristiane. In questo l'ex premier si dimostra l'unico statista in circolazione per lucidità di analisi, chiarezza nelle soluzioni, profondità ideale.
L'europeismo ortodosso di Draghi, oro a 24 carati, disegna un sentiero ecumenico compatibile con gli obiettivi apparentemente eretici di Meloni, Salvini e Tajani: in sintonia con l'idea di un'Europa senza più figli e figliastri, che a questo punto conviene anche a francesi e tedeschi se non vogliono farsi del male per stupido orgoglio.
E così, con un paio di colpi d'ala, Mario, che non ha mai smesso di essere Super, ascende a candidato perfetto, se non come sostituto di Ursula, come suo supervisore quale presidente del Consiglio europeo, che raduna i capi di governo dei 27, al posto dell'impalpabile belga Charles Michel.
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