La partita del Quirinale si aprirà solo a inizio gennaio, ma tiene banco ormai da settimane. Non solo nel dibattito pubblico, ma soprattutto in quello ben più riservato e inaccessibile delle segreterie di partito. Una sfida complessa, caratterizzata dall'insidia di un voto segreto che negli anni ha fatto vittime illustri. L'ultima, in ordine di tempo, Romano Prodi nel 2013. Provando a schematizzare e utilizzando un paragone calcistico, si potrebbe ipotizzare una «tripla» di scenari per immaginare come si concluderà la sfida che dopo l'Epifania coinvolgerà i 1.009 grandi elettori che comporranno il collegio elettorale destinato ad eleggere il presidente della Repubblica (630 deputati, 315 senatori più i 6 a vita e 58 delegati regionali). Il primo scenario - già raccontato - è quello di un Mattarella bis. Al quale segue l'ipotesi che a scalare il sentiero impervio del Colle possa invece essere Mario Draghi. Solo archiviate queste due possibilità, ci sarà spazio per la terza via. Quella degli outsider.
La candidatura dell'ex numero uno della Bce, peraltro, è una soluzione considerata quasi scontata fino a nemmeno un anno fa. Ma che da quando Draghi siede a Palazzo Chigi presenta molte controindicazioni. Come per il Mattarella bis, anche in questo caso è d'obbligo la premessa che trattasi di uno scenario sul quale avranno un peso decisivo i reali desiderata del diretto interessato. Presupposto, questo, difficilmente valutabile. È evidente, insomma, che se il premier fosse fortemente intenzionato a spiccare il volo verso il Quirinale, sarà difficile per la politica - che nemmeno un anno fa lo ha chiamato a risolvere i problemi del Paese con un voto di fiducia quasi bulgaro - dirgli di no.
Il tema di cosa voglia fare Draghi, dunque, è centrale. Tanto che solo due giorni fa, nella prima conferenza stampa dopo la pausa estiva, gli è stato chiesto un commento in proposito. La risposta del premier è stata piccata: «Trovo un po' offensivo questo fatto di pensare al Quirinale come a un'altra possibilità, offensivo anche nei confronti dell'attuale presidente della Repubblica». Ma certo non ha chiuso la porta all'ipotesi di un suo possibile passaggio al Colle. Scenario su cui si dividono persino i suoi ministri. Ce n'è uno di Forza Italia, per dire, che a diversi interlocutori assicura che «Draghi è deciso ad andare al Quirinale». Mentre altri due esponenti di governo - uno Pd e un altro della Lega - sono invece convinti che il premier voglia restare dov'è. La conferma, insomma, che sulle reali intenzioni dell'ex numero uno della Bce non ci sono certezze. Allo stesso modo, se a Palazzo Chigi sostengono tutti che il presidente del Consiglio sia «perfettamente a suo agio nel ruolo che ricopre» e «completamente assorbito» sia dal «capitolo Recovery plan» che «dai dossier internazionali», proprio sul Colle c'è invece chi inizia a pensare che a Draghi - e soprattutto ai «draghisti» - non dispiacerebbe affatto una «promozione» al Quirinale.
Di certo, c'è che l'ex governatore di Bankitalia sembra oggi muoversi con grande disinvoltura, soprattutto sullo scenario internazionale che anche per storia gli è più congeniale. Si è già detto più volte, per altro, come la congiuntura di questi mesi sia favorevole come non mai a Draghi. Che ha tutte le carte in regola per ambire a diventare la voce forte dell'Europa. Non solo per il curriculum e la stima che gli riconoscono tutti gli interlocutori (compresa l'amministrazione americana), ma anche perché Angela Merkel è ormai in uscita, mentre Emmanuel Macron è tutto preso dalle presidenziali del prossimo anno. Per non dire del momento di grandissima debolezza di Joe Biden, che potrebbe vedere di buon occhio un Draghi con un ruolo centrare in Europa. Un percorso che il premier può pensare di intraprendere da Palazzo Chigi, non certo dal Quirinale. A meno di non voler tentare una sorta di passaggio di fatto a una Repubblica semipresidenziale. Circostanza improbabile, ma non impossibile. Basti pensare alla presidenza della Bce. È vero che erano i tempi della crisi dell'euro che portò all'ormai celebre «whatever it takes», ma l'attuale leadership di Christine Lagarde certifica che da quella poltrona non era affatto così scontato - come è accaduto a Draghi - diventare una personalità di caratura internazionale.
Peraltro, è proprio lo scenario europeo che sembra in qualche modo spingere il premier a restare a Palazzo Chigi. Se l'ex numero uno della Bce andasse al Colle, infatti, sarebbe difficile disinnescare le elezioni anticipate. Si potrebbero tentare preventivi accordi di garanzia, mettendo sul tavolo possibili premier come i «tecnici» Daniele Franco o Marta Cartabia (in realtà le quotazioni del Guardasigilli sono di molto in calo dopo il pasticcio sulla riforma della giustizia). Ma non si capisce perché, a quel punto, i partiti che vorrebbero andare al voto - Fdi in prima fila, ma pure la Lega e un Giuseppe Conte che non vede l'ora di ridisegnare i gruppi parlamentari M5s - dovrebbero accettare di votare Draghi al Colle.
Insomma, se davvero l'ex numero uno della Bce sarà eletto presidente della Repubblica, è altamente probabile che l'Italia vada alle urne per le politiche tra marzo e maggio. Un dato che agita molto sia Bruxelles che Washington, visto che nei prossimi mesi l'Europa potrebbe andare incontro a una vera e propria rivoluzione dei suoi equilibri, con il rischio di una grande instabilità. In Germania, infatti, si vota il 26 settembre e al momento si prospetta uno scenario «italiano», con i sondaggi che danno ben tre partiti - Spd, Cdu e Verdi - intorno al 20% e le più disparate ipotesi di maggioranza. In Francia, invece, le presidenziali si terranno nel 2022, ma la strada di una riconferma di Macron all'Eliseo non è affatto in discesa. Un quadro complessivo che fa temere per la stabilità del Vecchio continente e nel quale in molti auspicano che almeno l'Italia sia in una condizione solida e non certo alle prese con una campagna elettorale. Un augurio che l'Ue potrebbe declinare semplicemente facendo presente con la garanzia italiana dei finanziamenti arrivati con il Recovery fund è l'asse Mattarella-Draghi. E che sono quelli gli interlocutori con cui vogliono continuare a relazionarsi per garantire l'effettiva erogazione dei fondi.
A tutte queste ragioni, si aggiunge chi fa notare - un ministro della Lega - i rischi insiti a una candidatura quirinalizia dell'attuale premier. Che se per qualche ragione non andasse a buon fine - vedi Prodi nel 2013 - potrebbe compromettere irrimediabilmente la tenuta del governo.
Se l'ex numero uno della Bce finisse nella riffa del Colle e non ne uscisse vincitore, non c'è infatti dubbio che il suo ruolo e il suo peso ne uscirebbero ridimensionati. Questo non porterebbe necessariamente a una crisi di governo, certo. Ma l'instabilità - peraltro con il voto in agenda nel 2023 - sarebbe alle porte.(2 di 3 - Continua)
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