Esiste ancora una letteratura italiana?

La tendenza è modellare non materie prime ma prodotti derivati. Con lodevoli eccezioni

Esiste ancora una letteratura italiana?

Sarà che siamo in un'epoca tanto priva di idee che se dovessi dargli un nome la chiamerei l'«Età del Pongo» - dove ciò che si modella non è una materia prima (il marmo, il bronzo, il ferro, la lingua) ma qualcosa di derivato, ottenuto in laboratorio; qualcosa che, lavorato con cura, assume «l'aspetto di...» eppure non lo è. Quello che ci sembra marmo, bronzo, ferro, quella che ci sembra una lingua e anche uno stile, non sono che oggetti plastificati. Si fa sempre più insistente, nella nostra letteratura, una certa tendenza; l'idea massima di qualità che si riesce a pensare è una forma nuova di manierismo. Calchi di forme o generi storicizzati. Potremmo pensare si tratti ancora di post-moderno. Eppure la differenza è nella radicalità di un'accettazione di principio; di una scelta (a volte consapevole, altre assolutamente no) che ci pone nel falso, nella menzogna. Una menzogna spacciata per verità; insomma, espressa in cattiva fede. È un'ipocrisia ormai manifesta, accolta con benevolenza. Tutti sanno d'appartenergli ma preferiscono stare al gioco. È un principio di accettazione di non conoscenza. Se tutto è falso il vero non ha più senso. Accetto di non essere pur di non restare fuori da una (presunta e quindi falsa) comunità. Scegliere di appartenere all'inappartenenza. Se è vero che uomini si diventa rispondendo a necessità reali, mi pare che questi calchi non rispondano ad alcuna necessità - che dietro la vita non viva: che nel fondo di questi calchi non ci siano altro che parole. Allora, dovessi ordinare questa nuova tendenza della narrativa italiana contemporanea, sia negativamente che positivamente, la dividerei in sei filoni.

ROMANZO DISTOPICO, APOCALITTICO, GOTICO

È il filone più nuovo e insieme il più vecchio. Nuovo perché mai come in queste ultime stagioni se ne sono visti comparire tanti romanzi distopici (e cito giusto pochi nomi tra i più interessanti: Andrea Gentile, Andrea Esposito, Violetta Bellocchio, che devono una paternità ad Antonio Moresco, che il genere ha più di tutti esplorato). Vecchio, perché qualsiasi storia apocalittica viene dopo l'Apocalisse. Si dirà, nessuno si è mai inventato nulla. È vero. Il problema è sempre il come. Ed è del «come» che voglio parlare. Segnalo due libri usciti nella stessa collana diretta da Vanni Santoni della casa editrice Tunué. Il primo è un romanzo di Orazio Labbate, Suttaterra. Labbate ha ricevuto molte attenzioni per i suoi libri, eppure ancora nessuno mi pare gli abbia detto che sono ingenui. Che i suoi fantasmi siciliani hanno troppo il sapore letterario (un'infarinatura da Faulkner, soprattutto), ma un letterario non ancora digerito, quasi citazionistico; che del letterario prende solo la suggestione. Demoni, insomma, che non spaventano nessuno perché è l'autore il primo a non essersene fatto spaventare. Quei demoni non gli appartengono, non sono suoi, non lo riguardano. Pare che Labbate non abbia compreso ancora una cosa fondamentale: che i demoni sono reali. Il secondo libro è Tabù di Giordano Tedoldi: un romanzo complesso, filosofico e già provarne una sintesi che ne definisca la trama ne altererebbe il significato, perché è labirintico, sfugge a una semplificazione riassuntiva. È la storia di un'amicizia tradita; e di come ci si domandi se quel tradimento sia un abominio morale (il tabù), o se quel tradimento abbia una sua legittimità in natura. I confini tra ciò che è reale e ciò che è illusorio sono inscindibili. Solo accettando la realtà di questo paradosso riusciamo a seguire il romanzo. Tedoldi mi sembra voglia dimostrare la natura contraddittoria del reale, rivoltando la visione convenzionale che ne abbiamo. La sua scrittura è brillante, intelligente, coltissima. Nella prima parte del libro, quando il narratore è Piero, il romanzo ha un andamento tutto mentale. I dialoghi e i ragionamenti di Piero sembrano la mente stessa dell'autore. Col secondo narratore, Eusebio, il tono cambia, direi anche che la tensione narrativa scende. Ma la fase calante del libro coincide col tono metafisico che assume il romanzo. Ma sono di una tensione filosofica indiscutibile i dialoghi sulla natura di Dio tra Piero ed Eusebio. Con il terzo narratore, Rosa (Messabianca), il romanzo, oltre che metafisico (forse surreale), diventa anche lirico. Il merito di Tedoldi è anche quello di modificare la scrittura quando il narratore cambia.

ROMANZO STORICO

Anche qui, vecchio e nuovo convivono. La nostra letteratura non è certo vergine di romanzi storici. Il punto è come oggi la storia viene trattata narrativamente. Di scrittori potrei nominarne diversi, da Helena Janeczek a Davide Orecchio. E potrebbero essere, a pensarci, un'altra possibile coppia rispettivamente di negativo e positivo. Ma ho scelto altri due autori. Perché, mi domando, un libro come Le assaggiatrici (Feltrinelli) di Rosella Postorino non ci fa provare nessun moto di ripulsa, di rifiuto, di fastidio? Del resto, quello che racconta (le assaggiatrici sono coloro che provavano il cibo prima che Hitler lo mangiasse per verificare se ci fosse qualche veleno che potesse ucciderlo) dovrebbe pure rivelarci qualche verità umana, sia pure nella sua estrema viltà o crudeltà. Eppure sentiamo che non facciamo un passo fuori dall'ordinario, che il tema del libro non è che un tema deciso a tavolino. E quale tema più appetibile del nazismo e delle sue infinite variazioni - tutte facilmente romanzabili e tutte già romanzate? Un libro che ha la pretesa di essere letterario ma che non va oltre l'intrattenimento. Consola - e parrebbe un paradosso se non fosse un'evidenza - sentirsi dire che il nazismo è stato tanto crudele e disumano (come ovviamente è stato) e che lo è stato anche con le donne (come ovviamente è stato). Consola non dover fare i conti con la propria crudeltà e viltà, che sono anche il baratro dentro cui ci fa scivolare la letteratura. Ho detto crudeltà e mi è venuto in mente il romanzo di Gianluca Barbera, Magellano (Castelvecchi), che l'autore al contrario promuove come un libro di intrattenimento, quasi sminuendolo, e invece è vera letteratura. Barbera ripercorre il viaggio intorno al mondo di Magellano, con un senso dell'avventura pari a quello di Salgari (e con Salgari condivide l'idea di un viaggio che sia tutto nell'immaginazione). Barbera usa una lingua che non è né di ieri né di oggi ma universale. In più è un libro in continuo movimento (narrativo ma anche stilistico). Se ci fa percorrere un viaggio, lo fa davvero con spirito d'avventura, quindi con un desiderio vitalissimo di conoscenza. E la scoperta non è solamente di terre e civiltà sconosciute, ma pure quella dell'animo umano messo di fronte alla verità di se stesso. L'uomo, che è certamente capace di gesti nobili, è altrettanto capace di tradire anche i suoi più cari amici, di mostrare la parte peggiore di se stesso pur di salvaguardare la propria vita (come il Lord Jim di Conrad, su cui sembra modellato il personaggio narrante, il primo ufficiale dell'equipaggio di Magellano).

ROMANZO SOCIALMENTE UTILE

È forse il filone maggiormente contemporaneo, pieno di buoni sentimenti, il più conformista. Ed è in virtù del conformismo che i romanzi socialmente utili - che variano le proprie tematiche dalla precarietà del lavoro all'immigrazione - sarebbe impossibile citarli tutti. Ne prendo perciò solo uno, che è tanto rappresentativo da essere sufficiente al discorso. Quando nel 2014 uscì Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) di Giuseppe Catozzella, il successo era assicurato, tanto che un critico come Marco Belpoliti si spinse addirittura a paragonarlo a Se questo è un uomo di Primo Levi. Eppure, nella storia di migrazione e riscatto sociale che racconta, Catozzella ha solo trovato la giusta formula per appagare i buoni sentimenti di tutti. Ha scritto quello che ognuno voleva sentirsi dire. Ha soddisfatto la bontà d'animo di ogni lettore. Lo ha consolato illudendolo di essere nel giusto, di essere buono, civile, solo perché lo faceva sentire ipocritamente partecipe di un dramma. Nessuna misericordia reale, però, se è vero che la misericordia è riconoscere le miserie degli altri come fossero le nostre. Piuttosto un pietismo da scrivania, una compassione ragionata. Finito il libro ci sentiamo migliori, e tanto basta a darci l'illusione d'essere già dei missionari - pur non mettendo mai il piede fuori da casa nostra. Quello che contrappongo a Non dirmi che hai paura non è un romanzo socialmente utile, ma uno politico, davvero civile. La magnifica (Fazi) di Arnaldo Colasanti non è un libro che vuole raccontare le miserie di un gruppo di scrittori in viaggio premio a New York, e di conseguenza tutte le meschinerie del mondo degli intellettuali. È invece un corpo a corpo con le nostre miserie. Il quesito che sta al fondo di queste pagine resta: «cosa è successo agli italiani?». Sembrerebbe una domanda semplice e invece l'interrogativo si rivela una «disputa sulla verità». Quando abbiamo accettato pedissequamente questo annichilimento culturale? Quando abbiamo tradito quel sogno che era pure un valore condiviso e che ci faceva vivere lo studio, la ricerca, il desiderio conoscitivo come qualcosa di tanto necessario da essere inderogabile?

ROMANZO TRADIZIONALE

È un filone insidioso, più di quanto sembra. Per «romanzo tradizionale» un tempo si intendeva quello ottocentesco. Ma parlare di romanzo della tradizione oggi non può non implicare anche quei libri che un tempo erano considerati d'avanguardia (e penso, per fare solo due esempi, alle opere di Joyce e di Virginia Woolf), ma che sono ormai tanto storicizzati da appartenere a pieno titolo alla «tradizione». Per questo leggo sempre con scetticismo tutti quei libri, e sono molti, che non hanno nulla da dire ma tanto da raccontare; quelli che fingono che il romanzo moderno e il Novecento non siano mai esistiti, e con un balzo tanto ingenuo quanto demente, aderiscono a un modello che non gli appartiene, ma che reputano molto più utile ai loro scopi. È il modello di derivazione statunitense che si è capillarizzato attraverso la «Scuola Holden». Romanzi identici l'uno all'altro. Ne hai letto uno e li hai letti tutti. Potete attraversare una storia di Paolo Giordano e una di Marco Missiroli e non ne capirete la differenza. Totale assenza di stile/totale fedeltà alla storia. Ma di storie non abbiamo più bisogno. Ogni cosa è divenuta tanto narrabile da renderci intolleranti a qualsiasi retorica della finzione. Nel solco del romanzo tradizionale, ma con una consapevolezza da fare invidia, tanto il talento è manifesto, ci sono invece scrittori come Giuseppe Munforte (che non ha sbagliato un libro, e che conferma ogni volta le sue eccezionali capacità linguistiche - sempre al contempo dentro e fuori dalla propria ferita, o talmente dentro da saperla raccontare già da un altrove); o Paolo Del Colle, che con Spregamore (Gaffi) ha spinto l'io narrante dentro un voragine in cui il tempo si dilata in un presente che contiene ogni tempo e l'esistenza si riflette in uno specchio ferito, frantumato.

DIARIO ROMANZESCO

È tra le forme narrative che maggiormente ha preso sul serio l'eredità del romanzo moderno. Qui potrei nominare scrittori come Francesco Permunian, Walter Siti, Renzo Paris, Aurelio Picca, Michele Mari, Simona Vinci, Aldo Busi e, perché no?, anche Alberto Arbasino (ovviamente ognuno con le sue specifiche peculiarità). Ma parlerò solo di due libri. L'ultimo di Giorgio Falco, Ipotesi di una sconfitta (Einaudi) è sostanzialmente un diario o un'autobiografia romanzata. La propria vita però, pare non più di un pretesto per raccontare come il mondo del lavoro è mutato negli ultimi decenni (la parabola del padre - di cui suo figlio, ragazzino, subisce il fascino quando lo vede con la sua divisa da autista di autobus - fino ai mille lavori occasionali del figlio che alla fine diventa uno scrittore). Raccontare la propria vita è sempre un rischio, specie se questa si traduce in un accumulo di fatti, tanto da farcene sentire la saturazione. Ma il disinteresse nasce perché avvertiamo, proprio in ragione di quella saturazione, un'inerzia che alla lunga stanca, annoia. E questo perché tra quei fatti non troviamo l'ombra di uno slancio stilistico, di uno scarto, di una visione. Tutto procede con una tale monotonia da percepire che non è esattamente quella vita ad annoiarci, ma il modo in cui è stata espressa: l'incapacità di averla resa, quella vita, una materia calda, davvero espressiva. Al contrario, leggendo Una sostanza sottile (Einaudi) di Franco Cordelli, il quale fin dai primi anni Settanta, con Procida, scrive diari romanzeschi, comprendiamo quanto il suo continuo interrogare la realtà, metterla sotto assedio, non è che un modo per farla a pezzi. E questo perché Cordelli, forse in Italia quello che meglio conosce e ha studiato la narrativa moderna, ha capito che ogni romanzo è già un discorso sul romanzo: una sua reiterata ritrattazione e messa in discussione. In questo ultimo libro ha fatto del personaggio della figlia la depositaria di un segreto: colei che deve raccogliere la testimonianza della vita di suo padre. Ma quella donna è figlia e madre insieme, perché non è altro che l'opera stessa di Cordelli che finalmente ha preso parola, che ha deciso di raccontare colui che l'ha generata e che lei stessa ora genera, donandogli una nuova vita - una vita resa vera dall'espressione.

ROMANZO-SAGGIO O SAGGIO NARRATIVO

Qui non metterò in contrapposizione nessuno. Gli scrittori di cui parlo - e potrei immediatamente nominare Raffaele La Capria, Salvatore Silvano Nigro, Massimo Onofri (specie per i suoi due libri isolani) - sono critici e insieme narratori. Il problema che maggiormente si pongono è quello di una forma. Emanuele Trevi l'ha chiamata genericamente ma correttamente (ed è un'asserzione strappata al Pasolini di Petrolio) Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie). Voglio dire, questi saggisti antiaccademici, non nel senso che non hanno rigore, ma che cercano di aprire spazi di libertà creativa anche in quello che potrebbe restare solo il compendio di un'analisi, sono dei commentatori: scrivono sul già scritto. Sono critici e romanzieri nello stesso tempo. Penso, per esempio, al Davide Brullo dello Pseudo-Paolo (Melville), che sui modelli del Quinto evangelio di Mario Pomilio e del Fuoco pallido di Nabokov ha raccontato, inventandosi una lettera apocrifa dell'apostolo, con relativo commento filologico (o pseudo-filologico), un modo nuovo per cercare con ferocia e visionarietà la ragione ultima della nostra esistenza, il nostro rapporto con l'imponderabile e il definitivo. Poi Fabrizio Coscia, che in Dipingere l'invisibile (Sillabe) scopre nei quadri di Francis Bacon lo spezzarsi della narrabilità di un'immagine e, attraverso questa scoperta, trova un modo personalissimo di scrivere. Ancora Filippo Tuena, che in Come è trascorsa la notte (Il Saggiatore), per mettere in scena il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare non si limita a seguire il copione così come è stato tramandato, e non solo perché, come rileva, le versioni succedutesi nei decenni sono anche discordi.

Il suo intervento sull'opera di Shakespeare è infatti creativo proprio perché interpretativo.

Sarei uno sciocco a pensare che il discorso sulla narrativa e sul romanzo si esaurisca con un articolo, ed è fin troppo ovvio che ogni libro vada giudicato singolarmente e che per quanto ci si sforzi a dare un ordine all'esistente è pur sempre la

singolarità di ogni opera il valore assoluto di un giudizio. Del resto, il discorso sul romanzo non si è mai esaurito perché ci riguarda tutti. Aveva ragione ancora una volta Giacomo Debenedetti: «Si tratta anche di te».

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