Essere rinnegate dopo 45 anni Quelle figlie orfane di padri vivi

Giulio Maira, neurochirurgo del Papa, alla ragazza che aveva riconosciuto fin da neonata: "Non sei mia, ti tolgo il cognome"

Essere rinnegate dopo 45 anni Quelle figlie orfane di padri vivi

Il fatto di cronaca è questo: Giulio Maira, neochirurgo del Papa, tanti anni fa ha sposato una ragazza da poco mamma di una bimba. Pur consapevole che non fosse sua, ha deciso generosamente di riconoscere la piccola Francesca dichiarando all’anagrafe di essere il padre e dandole il cognome. Dunque ha commesso il reato di alterazione di stato previsto dall’articolo 567 del Codice Penale. Tenuto nascosto a tutti per quarant’anni: finché ha deciso, nel corso della separazione personale della moglie, di autodenunciarsi, rinnegando in un solo colpo sia la sua paternità anagrafica sia la sua paternità psicologica.
Il reato potrebbe non essere punito, perché ritenuto prescritto e, quindi, improcedibile l’attività giudiziaria volta a sanzionarlo. Anche se qualche giudice potrebbe valutare che, poiché la prescrizione decorre dal momento consumativo del fatto, in questo caso il fatto non si è ancora concluso, continuandone oggi gli effetti: per esempio nei certificati anagrafici e in ogni situazione nella quale la figlia ha usato e usa il cognome ritenuto finora legittimo.
In ogni caso, non interessa a nessuno come sarà sanzionato il protagonista di questa storia; l’indignazione verso di lui, per il suo gesto, sarà forse più grave e certa di qualsiasi pena. A meno che non abbia dalla sua parte la giustificazione di comportamenti inqualificabili della figlia.
Indipendentemente da quali possano essere le motivazioni che hanno portato alla frattura coniugale, nessun uomo e nessuna donna dovrebbero mai coinvolgere i figli usandoli come armi per abbattersi. Purtroppo questa tragedia, che esprime i suoi effetti nel futuro dei figli, si ripete ogni giorno a favore degli egoismi personali di chi litiga.
Nel caso di Francesca, le conseguenze di un gesto d’amore ritrattato, colpiscono il suo passato, il presente e il futuro. Chi lei ha creduto padre per trentotto anni, oggi la priva di una storia d’amore genitoriale sulla quale fin da piccola ha formato la personalità, l’affettività, la cultura. Mostrandogliela inutile e, comunque sia, togliendogliela. A meno che la figlia non abbia, lei per prima, ferito a morte il padre.
Nessuno può credere che la paternità, il gesto quotidiano di accompagnare la vita dei figli mostrando loro orizzonti e confini, sia una questione riconducibile al Dna. Abbiamo visto tanti padri scoprire dopo anni di non essere geneticamente compatibili con i figli, eppure rifiutare anche solo il pensiero di disconoscerli. Un «vero» padre, una volta, ha detto: «Se lo facessi disconoscerei me stesso, non mio figlio. E anche quella parte di me che gli ho regalato in ogni parola e in ogni abbraccio». Per di più, quel padre che oggi rinnega la volontà di un tempo, non è stato tradito. Non può giustificarsi con la rabbia e lo stupore della scoperta devastante di un adulterio. È la figlia, ad essere tradita. Una figlia che, orfana di un padre vivo, ne potrebbe anche perdere il cognome. Che assolve la funzione determinante di strumento identificativo della persona, perché idoneo a riconoscerla e distinguerla nel contesto sociale. L’interesse al proprio cognome è considerato meritevole di tutela della legge, proprio perché investe profili di identità personale, sociale e di vita di relazione in genere. Basti pensare a quante mogli vorrebbero mantenere il cognome del marito, nonostante il divorzio preveda che lo perdano.
Non è possibile pensare, senza lasciarsi prendere dall’angoscia, al dilemma di una figlia disconosciuta che, da una parte, non vorrebbe mai più sentire quel cognome e, dall’altra, vivere il disagio di saperlo parte di sé, praticamente insostituibile, e di doverlo perdere. Un nome che accredita e discredita contemporaneamente. Per il quale probabilmente dover combattere una battaglia giudiziaria al fine di poterlo mantenere. Malgrado la violenza subita. E sempre che questa non sia la reazione a catena di altre violenze. Magari iniziate proprio dalla figlia.
Perché cancellare un matrimonio, anche con l’annullamento, e simultaneamente cancellare la paternità, è una violenza gravissima; che fa strage di un importante patrimonio affettivo e ripudia la storia vissuta in comune.

Sembra quasi inconcepibile tanto da suggerire il mistero di una ragione insondabile dietro questa drammatica sceneggiatura, che tuttavia non produce una fiction tv, bensì una narrazione di gravi dolori. Forse anche del padre, noto e importante neurochirurgo, celebre professore. Forse questo pezzo è da riscrivere, ipotizzando persino l’ingratitudine di una figlia verso un padre suo malgrado.

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