
Ci sono alcune immagini per me forti del funerale di Francesco. Ed esse, una dopo l'altra, hanno suscitato in me il pensiero nettissimo di papa Giovanni XXIII.
Alle 9,50 è il momento in cui nella basilica a onorare il Papa morto si ferma Trump, poi un re che non ricordo. E mi accorgo che elementi fissi della scena non sono solo le guardie svizzere, nelle loro divise michelangiolesche, ma soprattutto un gruppo tutto nero di suore, che gareggiavano in immobilità con il feretro, e custodivano il loro caro Papa, disposte senza ordine, ma più vere, di tutte le file perfette di prelati e politici. Questo ha suscitato antiche memorie. Mi sono apparse come le pie donne di certi quadri della Via Crucis, e dentro quegli umili assi di legno ho rivisto sono bergamasco appunto Giovanni XXIII. Un parallelo che la storia conferma. Due Papi eletti quasi ottantenni. Non solo: Angelo Roncalli da Sotto il Monte e Jorge Mario Bergoglio da Buenos Aires hanno vissuto mentre la guerra atomica era (e tuttora è) una minaccia reale. Non hanno soltanto invocato genericamente la pace e la concordia, ma hanno agito ponendosi come interlocutori personali, invitando le parti ad usare la diplomazia vaticana, e i suoi ambiti sovrannazionali, per avvicinare le rispettive ragioni.
Alle 9 e 55 di ieri, come i tanti di voi che erano davanti alla televisione, vedendo il presidente americano pensieroso sotto la chioma ero alquanto disilluso riguardo a chance di successo: non aveva ottenuto la pace da vivo, figuriamoci se Francesco da defunto poteva spostare qualcosa. Ho appreso poi che in quel momento era già seduto tra i dignitari anche Volodymyr Zelensky, che fino a qualche ora prima aveva detto di aver altro e più urgente da fare che sedersi sul sagrato di San Pietro, avendo nei dintorni il Trump con cui aveva litigato alla Casa Bianca, e nei pressi la ministra russa della Cultura in rappresentanza di Putin, con cui è in guerra. Avevo notato che il leader ucraino aveva dismesso gli abiti da soldatino, ma mi pareva ovvio rispetto del protocollo. Le immagini in mondovisione mostravano intanto Macron accanto a Trump e più lontano Zelensky. Si vedeva: erano emozionati. Ho pensato cinicamente: la commozione sposta le cose nelle teste ma poi esse si sistemano come prima.
Invece, dopo la bella omelia del cardinal Re, e quando si sta per spostare il feretro, improvvisamente appare sullo schermo la fotografia di Trump e di Zelensky (nella solita tuta nera). Stanno seduti su due sedie coperte di velluto rosso, in mezzo alla basilica vaticana, sono protesi uno verso l'altro, ho pensato a un fotomontaggio. Sembra che uno confessi l'altro. Invece era tutto vero, accadeva poche ore prima. Un incontro in campo neutro, anzi in territorio sacro, o almeno umano, un pavimento che è stato calcato da Papi che uno dopo l'altro in questi ultimi cento anni hanno fatto di tutto con parole e gesti per impedire o far fermare guerre.
Ed ecco la figura di San Giovanni XXIII ritorna. Egli si mobilitò sia con Chruscev sia con Kennedy quando i missili sovietici erano puntati da Cuba contro Washington e quelli americani avevano il muso puntato su Mosca e Leningrado. Inevitabile l'attacco preventivo se il capo del Cremlino non spostava subito le testate dalla fattoria di Fidel Castro. Ed ecco la tensione si scioglie. Interviene il Papa. Non ho mai capito se sia una verità romanzata, quella del recapito ai due leader delle tremende descrizioni contenute nel terzo segreto di Fatima in caso di guerra atomica, o una leggenda agiografica. Di sicuro la capacità di papa Roncalli in campo diplomatico, con la sua ferma tenerezza, si dispiegò con successo. E durezza e tenerezza non sono forse due caratteristiche di Francesco? Magari essa avrà il suo premio, e dischiude già i primi risultati, dopo la morte e dopo il suo sacrificio. Non mi sto riscoprendo mistico, mi limito a constatare fatti. Un colloquio a tu per tu, con questa disposizione reciproca di fiducia, che i corpi rivelano, è un inedito assoluto di questi anni.
E ripenso a due caratteristiche di Bergoglio che lo imparentano a Roncalli. Anzi ne fanno un gemello. Direi quasi, e scusate la parafrasi zoppicante: dalle Prealpi Orobiche alle Ande. Ad accomunare l'argentino di razza piemontese al predecessore lombardo, è un lascito umano, familiare e anche politico che va oltre la volontà di pace e di disarmo. È la carezza ai bambini e ai vecchi. Pratica, teorica, direi essenziale. Tutti a scrivere sul conto di Francesco: il primato dei poveri, il primato degli ultimi. Ma oggi non c'è chi è trascurato e abbandonato come chi vive le due estreme età della vita (e per i piccoli ciò vale ancor prima di nascere).
L'ultimo suo testo è stata la prefazione a un libro sulla vecchiaia del cardinale Scola. Scrive Bergoglio: « dire "vecchio" non vuol dire "da buttare", come talvolta una degradata cultura dello scarto porta a pensare. Dire vecchio, invece, significa dire esperienza, saggezza, sapienza, discernimento, ponderatezza, ascolto, lentezza... Valori di cui abbiamo estremamente bisogno! È vero, si diventa vecchi, ma non è questo il problema: il problema è come si diventa vecchi». E qui tocca alle famiglie, alla scuola, alla politica far sì che diventi «un'età della vita davvero feconda e che può irradiare del bene».
L'estremo gesto pubblico e insieme privato di Francesco non è stato forse il suo sublime sforzo per carezzare la testa di Mark, un bimbetto pugliese che aveva visto piangere da lontano e ha fatto dirigere lì la jeep bianca? Giovanni XXIII descrisse esattamente questo atto di Francesco con un anticipo di 63 anni. «Quando tornate a casa, date una carezza ai vostri bambini e dite che è la carezza del Papa» (11 ottobre 1962).
Prima di «tornare alla casa del Padre» (così il cardinale Re ha rappresentato la sua morte), Francesco a Pasqua ha obbedito al predecessore. Ora aspettiamo che, anche sul resto, a questi due obbediscano i potenti della terra.
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