"Non è che se vieni in Italia la cultura cambia, la cultura è cultura". Sono emblematiche e preoccupanti le parole che ci affida una migrante camerunense sulla cinquantina. Lavora in un salone di bellezza a due passi dalla stazione Termini, in una di quelle strade dove ormai si vedono solo insegne straniere. Sta armeggiando con la capigliatura di una cliente quando ci racconta con estrema naturalezza che quella dell’infibulazione è una pratica tutt’altro che scomparsa nelle comunità di stranieri trapiantate nelle nostre città.
"Ma per farlo ritornano nel loro Paese d’origine perché qui è vietato", ci tiene a specificare. Secondo un’indagine condotta dall’università Milano Bicocca, in Italia sarebbero più di 85mila le straniere portartici di mutilazioni genitali femminili (Mgf). Di queste, da 5 a 7mila sono minori. È una pratica diffusa in Africa, nel sud della penisola araba e sud est asiatico che è arrivata anche in Occidente attraverso i flussi migratori.
Nel nostro ordinamento "la clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che causa effetti dello stesso tipo o malattie psichiche o fisiche" sono espressamente vietate e vengono punite con la reclusione fino a dodici anni. Non sono abbastanza per scoraggiare alcuni migranti che ancora le considerano come un irrinunciabile rito di passaggio.
Una mentalità tipica delle società a stampo patriarcale dei Paesi a prevalenza islamica ma anche di alcune popolazioni africane cristiane e animiste. Dietro a questa pratica c’è il convincimento che l’annientamento del piacere sessuale femminile serva ad assicurare la fedeltà coniugale. E non solo. In molti casi mutilazioni e lesioni dei genitali sono necessarie per contrarre il matrimonio.
In Somalia, dove il 98 per cento della popolazione femminile è stato sottoposto a questa barbara usanza, ad esempio, il matrimonio tradizionale è una vera e propria transazione. L’affare si conclude dopo che la madre o la sorella del pretendente hanno ispezionato la futura sposa verificando proprio che l’infibulazione sia intatta. È il prezzo che devono pagare le donne per ottenere un posto nella società.
Un prezzo troppo alto per Fatima, nome di fantasia di una donna somala di nascita e pescarese di adozione. È una sopravvissuta: "Mi tenevano braccia e gambe, non ricordo in quante fossero, mi hanno tagliata contro la mia volontà, dicevano che era per il mio bene". Oggi giura e spergiura che una cosa del genere sulle sue figlie non la farebbe mai. "Le mutilazioni dei genitali sono una pratica orrenda che lascia cicatrici non solo sulla pelle ma anche nell’anima", ci racconta.
Da quasi cinquant’anni tutto quello che ha a che fare con la sua sessualità è diventato una pena insostenibile. Come insostenibile è stato il dolore provato per mettere al mondo le sue due figlie, un dolore che le ha tanto ricordato quello provato quando ad appena otto anni le hanno asportato il clitoride, le piccole labbra e parte delle grandi per poi ricucirla in maniera rudimentale.
Non tutti però la pensano come lei. C’è chi rimane attaccato alla propria cultura di appartenenza nonostante viva qui da ormai diversi lustri. "Personalmente sono contrario, ma in molti pensano che sia una cosa necessaria – sentenzia un vecchio somalo che incrociamo all’Esquilino – per evitare che le donne se ne vadano in giro in cerca di sesso appena iniziano ad avere gli ormoni e diventare signorine". Parole inconcepibili, che il nostro interlocutore pronuncia quasi divertito. "Quante ragazze già a quindici anni rimangono incinte qui in Italia? Queste cose – prosegue – in Somalia non le accettano".
Si dichiara favorevole senza dubbi un ventenne della Nigeria.
"Per me è giusto fare questo alle ragazze, ne conosco tante – ci spiega – che non l’hanno fatto e che iniziano con il sesso già a dieci, undici e dodici anni, anche qui in Italia". Dell’equivalente maschile però non vuol sentir parlare: "Non sono d’accordo, penso che Allah abbia creato noi uomini perfetti, non serve essere circoncisi".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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