Il gioco di Salvini: si lamenta ma è complice dei grillini

La Lega non ne può più dei grillini ma li asseconda per non perdere il potere

Il gioco di Salvini: si lamenta ma è complice dei grillini

Gli echi delle confessioni degli uomini del Carroccio ormai esprimono un unico mood: non ne possono più dei 5stelle. Per Giancarlo Giorgetti sono dei «fuori di testa». Per Dario Galli «andrebbero mandati a casa». Massimo Garavaglia, che è un tipo più calmo, li tollera a malapena. Tant'è che lo stesso Matteo Salvini già più di un mese fa ammetteva: «Sono l'unico che difende l'alleanza con i grillini, i miei l'avrebbero rotta da un pezzo». Solo che le riserve, le polemiche, i distinguo non salvano l'anima. Tutt'altro. Se il governo è partito con il piede sbagliato per affrontare una recessione economica che ormai è alle porte, la responsabilità non è solo di chi ha tirato fuori dal cilindro, nel momento meno opportuno, il decreto dignità, o una manovra con una forte impostazione «assistenziale» e non espansiva, o un atteggiamento verso le grandi opere come la Tav da oscurantismo medievale; ma anche di chi l'ha assecondato, di chi non si è opposto per difendere un governo che assume sempre più le sembianze di un sepolcro imbiancato, in cui l'ipocrisia del potere, rappresentata dal cosiddetto «contratto», nasconde, e sacrifica, differenze programmatiche e culturali di fondo. Un'ipocrisia che rischia di pagare, soprattutto, il Paese.

Già, quanto è successo e ciò che sta avvenendo non sarebbe stato, e non sarebbe possibile, senza una «complicità»: i 5stelle sbagliano, la Lega li contesta, ma alla fine li copre, magari per strappare il «sì» per qualcosa di suo. A giugno, quando già si intravedevano i primi segnali di una congiuntura economica negativa, i leghisti accettarono il decreto dignità, che ha reso più rigido il nostro mercato del lavoro tra le proteste degli imprenditori del Nord, in cambio della mano libera per Salvini sulle politiche per l'immigrazione. Questa, la si può vedere come si vuole, ma è una complicità. Se nella legge di bilancio la «flat tax» svanisce e al suo posto ti ritrovi il reddito di cittadinanza, se non c'è associazione che non segnali nella manovra un aumento della pressione fiscale, tanto o poco non importa, la responsabilità non investe solo chi culturalmente preferisce «il sussidio» al «lavoro», ma anche chi non ha memoria delle proprie radici culturali per assecondare l'attuale equilibrio politico. E a nulla vale il teatrino quotidiano di grillini e leghisti per rappresentare - anche elettoralmente - il tutto e il suo contrario, magari inscenando per parlare d'altro un braccio di ferro sul destino di 15 disperati di immigrati: la colpa di un Paese che sta andando verso la recessione impreparato, che vede la produzione industriale precipitare del -2,6% rispetto allo scorso anno, è complessiva.

Il peccato originale di questo stato di cose è nel compromesso al ribasso, su cui poggia l'esecutivo gialloverde: non c'è una filosofia di governo comune, un programma che accomuni i due partner, ma un «contratto» che somma, alla bell'e meglio, due programmi che su alcuni temi tradiscono addirittura convinzioni agli antipodi. Il «caso» della Tav è esemplare. Dice Salvini: «Io voglio un'Italia del sì che vada avanti e non indietro». Un'immagine efficace. Solo che se la Lega spinge per andare avanti e i 5stelle, come adombra il vicepremier leghista, per tornare indietro, le leggi della fisica applicate alla politica, paventano il rischio che il Paese resti fermo, paralizzato da due idee opposte. Un limite che in un periodo di vacche grasse il tempo può anche esorcizzare, ma che in una fase di vacche magre, invece, può precedere una tragedia. E il ricorso al referendum, per sciogliere un nodo del genere, forse è il più efficace «j'accuse» sull'inadeguatezza dell'attuale governo: un referendum lo si promuove su questioni di coscienza - com'è stato sul divorzio, sull'aborto -, non sulla costruzione di un tunnel. Se un governo, e la sua maggioranza, abdicano a svolgere il proprio ruolo decisionale sulla costruzione di un'infrastruttura, significa che poi dovranno farlo per ogni opera d'importanza nazionale. A quel punto ci sarebbe da chiedersi a cosa serva un governo. Di più: se si tiene insieme ciò che non può stare insieme, perché uno guarda davanti e un altro indietro, uno punta sull'assistenza e l'altro sul lavoro, uno sul governo dell'esistente e un altro sullo sviluppo, con quali convinzioni si impostano i programmi, secondo quali filosofie si immagina il domani? In altre parole se differenze così profonde non contano, quali tortuose logiche guidano la politica? È difficile accettare l'idea che il governo del Paese si risolva, solo e comunque, nella gestione del potere, nel decidere chi va alla Consob o alla Rai. Tanti esempi hanno dimostrato che il vecchio detto andreottiano, il potere logora chi non ce l'ha, è roba d'altri tempi.

Motivo per cui se Giggino Di Maio, che addirittura intravede dietro i sintomi del malessere della nostra industria le premesse di un nuovo «boom» economico, si candida a essere l'«assassino» del futuro del Paese, Salvini, assecondandolo, rischia di ritagliarsi il ruolo del «complice».

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