Abbiamo imparato che curarsi dal Covid è possibile. Ora lo è anche farlo domiciliarmente con grandi benefici sia per il malato a contatto con l’ambiente familiare, che per le strutture sanitarie alleggerite dal peso dell’ospedalizzazione. Questo nuovo e importante traguardo è il frutto di un lavoro su più fronti, fatto da una parte sull’appoggio delle strutture assistenziali domiciliari e dall’altra da farmaci di nuova generazione che permettono in tutta sicurezza di potersi curare nell’ambito delle mura domestiche. Ne abbiamo parlato con il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto di Ricerche Farmacologiche del Mario Negri con cui abbiamo anche affrontato i temi dei farmaci di nuova generazione, un passo avanti importante nella cura del Covid.
Professore inizierei proprio parlando del farmaco al cortisone da inalare, di cui ha a lungo parlato la rivista “The Lancet”, che permetterebbe di dimezzare i tempi della malattia.
“Il farmaco in questione è il Budesonide, ovvero cortisone per inalazione. I ricercatori che hanno pubblicato lo studio prospettico su The Lancet hanno dimostrato che la sua somministrazione precoce, per un breve periodo, riduce sia la probabilità di aver bisogno di cure mediche urgenti sia il tempo di recupero dopo il Covid. Sono arrivati a questo risultato dall’osservazione dei pazienti con malattie respiratorie croniche ricoverati in ospedale a causa del Covid-19. Probabilmente l'uso di medicinali a base di cortisone per inalazione rappresenta un trattamento efficace per i primi sintomi di Covid -19. Questo tipo di terapia alleggerirebbe la pressione sui sistemi sanitari di tutto il mondo in attesa di completare la campagna vaccinale SARS-Cov-2. Inalare Budesonide è semplice, sicuro, ben studiato, economico e il trattamento è ampiamente disponibile. Anche il Desametasone è un farmaco ampiamente disponibile e a basso costo, capace di ridurre la mortalità delle forme gravi di COVID-19, così come esiste un buon potenziale di cura da parte degli anticorpi monoclonali nei primi sintomi di COVID-19. Il vantaggio della Budesonide inalata, però, è che non sappiamo se la sua efficacia sarà influenzata da nuove varianti del SARS-Cov-2”.
Oltre a questo farmaco, che comunque è un grande aiuto per chi può curare il covid nella propria abitazione, in campo medico ci sono nuove risorse che si stanno sperimentando?
“L’Istituto Mario Negri è coinvolto in due progetti che vedono l’utilizzo di due farmaci nella cura del Covid-19: la Ivermectina e Metotrexato. L’Ivermectina è un farmaco utilizzato sia per il trattamento di infestazioni di parassiti ad ampio stretto sia per il trattamento di specifici disturbi della pelle, come la rosacea. Al momento non ci sono ancora risultati definitivi: lo studio è ancora in corso e quindi vale la raccomandazione dell’EMA di non utilizzare questo farmaco per la prevenzione o per il trattamento di Covid-19 al di fuori degli studi clinici. Le ultime evidenze emerse da studi di laboratorio, osservazionali, clinici e da metanalisi hanno mostrato che Ivermectina sarebbe sì in grado di bloccare la replicazione del SARS-CoV-2 ma solo utilizzandolo a concentrazioni troppo elevate rispetto a quelle raggiunte con le dosi attualmente autorizzate, causando quindi una certa tossicità. Il Metotrexato, un farmaco antitumorale, sembrerebbe essere in grado di inibire la replicazione del nuovo coronavirus, se utilizzato tempestivamente o comunque alla prime manifestazioni della malattia. Anche in questo caso, però, si tratta di studi ancora molto preliminari: i primi risultati derivano infatti da esperimenti eseguiti in vitro, su cellule in laboratorio. Dunque, massima cautela e aspettiamo fiduciosi i risultati". Ci sono poi anche interessanti studi in corso sul farmaco antivirale Molnupiravir nella terapia anti-Covid e, soprattutto, il trattamento con gli anticorpi monoclonali (sostanze che agiscono con lo stesso principio con cui il sistema immunitario reagisce verso una aggressione esterna ndr). Al momento gli unici anticorpi monoclonali autorizzati temporaneamente dall’AIFA sono l'anticorpo monoclonale Bamlanivimab da solo o in associazione con l’Etesevimab, prodotti dall'azienda farmaceutica Eli Lilly, nonché la combo di Casirivimab-imdevimab dell'azienda farmaceutica Regeneron/Roche. Infine, segnalo anche l’anticorpo monoclonale VIR-7831, prodotto da GlaxoSmithKline e Vir Biotechnology: è appena iniziata la sua revisione clinica da parte dell’EMA per questo farmaco molto promettente che riuscirebbe anche ad aggirare il problema del ricovero ospedaliero in quanto, a differenza degli altri anticorpi monoclonali, il VIR-7831 può essere somministrato per via intramuscolare e non solo per via endovenosa”.
Qual è il beneficio delle cure a casa a parte quello di non ingolfare gli ospedali e come agiscono gli antinfiammatori sulla malattia? Soprattutto quando e come è possibile evitare di andare in ospedale?
“Curare a casa pazienti positivi al Covid-19, che presentano solo sintomi lievi, rappresenta una svolta per cercare di affrontare l’emergenza del nuovo coronavirus, limitando l’accesso alle strutture sanitarie. È importante che la cura domiciliare dei pazienti non aspetti l’esito del tampone. Si deve intervenire subito seguendo consigli molto semplici, stabiliti dal proprio medico di base. Già solo quei pochi giorni durante i quali si attende l’esito del test possono essere fondamentali per evitare che l’infiammazione alle alte vie respiratorie si aggravi trasformandosi in una possibile polmonite interstiziale. Nei primi 2-3 giorni il Covid-19 è in fase di incubazione: la persona non presenta ancora sintomi, ovvero è presintomatica. Nei 4-7 giorni successivi, la carica virale aumenta facendo comparire i primi sintomi, come tosse, febbre, stanchezza, dolori muscolari, mal di gola, nausea, vomito, diarrea. Può seguire poi un periodo di infiammazione eccessiva, che rappresenta la base su cui si può instaurare la polmonite. Iniziare a curarsi trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione respiratoria assumendo un farmaco antinfiammatorio, al posto di un antipiretico, fa sì che l’organismo limiti l’entità della risposta infiammatoria innescata per combattere l’attacco virale. Anche il cortisone, per i suoi effetti antinfiammatori, può essere utile nelle fasi precoci della malattia quando i sintomi COVID-19 persistono nonostante il trattamento per diversi giorni con farmaci antinfiammatori tradizionali. Lo dimostrano i resultati di uno studio pubblicato recentemente da ricercatori inglesi e australiani su Lancet Respiratory Medicine: la somministrazione a domicilio di cortisone per via inalatoria (come puff) nei primi giorni della malattia, risolve i sintomi in minor tempo rispetto ai trattamenti convenzionali, ma soprattutto riduce in modo importante il rischio che la malattia si aggravi e il paziente richieda di essere ricoverato".
L'Istituto Mario Negri di cui lei è direttore, ha diffuso un vademecum su come curarsi e prevenire il covid. Quali sono le novità rispetto al vaccino e le protezioni come mascherina e distanziamento?
“Il Vademecum AntiCovid è stato realizzato in collaborazione con Valtellina SpA. Riguardo ai vaccini quello che possiamo dire è che siamo stati fortunati ad averne così tanti a disposizione in un così breve tempo. I vaccini, in questo momento sono una delle poche armi a nostra disposizione per proteggerci dal Covid-19. Tutti i vaccini oggi disponibili sono ugualmente efficaci nel prevenire forme gravi della malattia e nell’evitare il ricovero. Gli effetti collaterali, come febbre, mal di testa, dolori articolari e muscolari, sono transitori e scompaiono in pochi giorni. Anche alcuni episodi di reazioni allergiche di cui si è parlato sono rarissimi. I dati comunicati dalle aziende produttrici e dalla grande campagna vaccinale in corso in tutto il mondo sono molto promettenti e inducono a pensare che l’efficacia sia buona, se non addirittura ottima. È altrettanto vero che i vaccini sono sì fondamentali per diminuire il numero di persone con l’infezione, il carico sul servizio sanitario e i morti, ma difficilmente rappresenteranno la soluzione definitiva che porrà fine alla pandemia. Per questo motivo dovremo mantenere ancora per mesi le misure anti-contagio come distanza fisica, mascherina, igiene delle mani. Il vaccino non estinguerà il coronavirus: ci proteggerà dalla malattia, ma non la farà sparire. Fino a quando non sarà immunizzata gran parte della popolazione, bisognerà continuare a rispettare le attuali misure di attenzione”.
Vorrei capire con lei se esistono o si stanno già preparando vaccini di nuova generazione per contrastare l'ondata di varianti che sembrano fare a gara per cercare di far sopravvivere il virus.
“Tutti i vaccini sviluppati contro il Covid-19 stimolano il nostro sistema immunitario a produrre anticorpi contro la proteina Spike del SARS-CoV-2, complesso poi eliminato dal nostro organismo. I vaccini Pfizer e Moderna utilizzano una tecnologia a RNA messaggero, messa a punto anni fa per la produzione di farmaci oncologici. In seguito all’ingresso dell’RNA messaggero virale, le cellule infettate producono la proteina spike del nuovo coronavirus. Successivamente, il sistema immunitario riconosce questa proteina come estranea e produce gli anticorpi in grado di eliminare il virus. AstraZeneca, Johnson&Johnson e Sputnik, invece, utilizzano un veicolo diverso per recapitare alle cellule il materiale genetico della Spike: un adenovirus modificato ad hoc in laboratorio per renderlo incapace di replicarsi. Tutti i vaccini sviluppati contro il Covid-19 proteggono indistintamente dalla malattia grave. Questo significa, quindi, meno persone in terapia intensiva e più vite umane salvate.“Aggiornare” la sequenza genetica della proteina Spike sulla base delle mutazioni identificate nelle diverse varianti dovrebbe essere un processo piuttosto semplice e immediato. Per cui la difficoltà non sarà tanto sviluppare vaccini efficaci anche contro nuove eventuali varianti pericolose, quanto poi produrli in grandi quantità e distribuirli in tutto il mondo. Al momento comunque, i vaccini disponibili presentano una buona efficacia contro tutte le varianti rischiose diffuse oggi: l’inglese, la brasiliana, la sudafricana (la più temuta) e l’indiana, che presenta mutazioni in comune con queste ultime due”.
Dall’inizio della pandemia a che punto siamo sulla conoscenza del Covid?
“Dalle notizie iniziali di focolai di polmonite interstiziale di origine sconosciuta a Wuhan in China nel Dicembre 2019 sono trascorsi più di 16 mesi, con un numero impressionante di casi diagnosticati di COVID-19 e ormai più di tre milioni di decessi nel mondo. Durante questo periodo relativamente breve, si è tuttavia raccolta una varietà di informazioni da numerosissimi laboratori e centri di ricerca clinica e di base, che hanno riguardato molti aspetti della malattia COVID-19, dalla supposta origine dell’infezione da coronavirus SARS-CoV-2 fino allo sviluppo di numerosi candidati vaccini. Ad esempio, molti immunologi hanno rapidamente modificato il centro della loro pre-esistente ricerca verso la malattia COVID-19, permettendo di convergere tutto in uno sforzo senza precedenti su un’unica infezione virale e ottenere e diffondere attraverso lo straordinario lavoro di molti giovani ricercatori, informazioni determinanti su questo virus e come poterlo combattere. Ora sappiano con quali strumenti (recettori) il virus entra ed infetta le cellule del nostro organismo, come si replica e danneggia il polmone causando la polmonite interstiziale e le forme più severe di insufficienza respiratoria che richiedono l’ospedalizzazione. Abbiamo evidenze sempre più importanti che è l’eccessiva risposta immunitaria e infiammatoria del nostro organismo, che si verifica nei primi giorni dopo l’infezione, a sostenere la progressione verso i casi più gravi della malattia COVID-19, piuttosto che l’azione del virus di per sé. E la malattia non si limita al polmone o alle vie aeree superiori, ma attraverso il processo infiammatorio e il danno dei piccoli vasi sanguigni interessa molti altri organi e tessuti, quali il cuore, i reni, la cute e anche il cervello, localizzazioni che sono responsabili poi del persistere di sintomi a lungo termine, anche quando l’infezione acuta da SARS-CoV-2 è stata superata. Tutto questo ci ha aiutato nella ricerca di terapie (farmaci e anticorpi) di cui stiamo ancora oggi sperimentando l’efficacia in studi clinici con risultati incoraggianti per alcune di esse, e naturalmente nello sviluppo dei vaccini. E poi la capacità dei test diagnostici antigenici e molecolari che ci permettono di chiarire chi ha un’infezione da SARS-CoV-2 in atto con assenza di sintomi, così da attivare rapidamente misure di contenzione della diffusione del virus con la quarantena, oltre a stabilire in casi particolari se si tratta della versione originale del virus o di una delle numerose varianti”.
Secondo lei a parte i vaccini quale è stato il passo avanti più importante nel contrastare la malattia?
“L’aver sviluppato attraverso tecniche di ingegneria genetica, anticorpi monoclonali che neutralizzano il virus SARS-CoV-2. Tutto parte dall’aver dimostrato che il virus presenta sulla sua superficie una proteina a forma di punteruolo (per questo si definisce proteina S dall’inglese ‘spike’ ‘punta’ ndr.). Questa permette al virus di legarsi e entrare nelle cellule del nostro organismo, inizialmente del sistema respiratorio, dove si moltiplica e dà il via alla malattia COVID-19 nelle sue diverse manifestazioni. Anticorpi diretti contro la proteina S possono bloccare la capacità del virus di legarsi alle cellule e trattare o prevenire la malattia. In diversi paesi viene utilizzato il plasma proveniente da pazienti COVID-19 convalescenti, che hanno sviluppato per via naturale questi anticorpi nel corso della malattia. L’esperienza precedente con altre malattie virali suggerisce comunque che sia necessario indentificare donatori con livelli elevati di anticorpi nel sangue (ma una parte dei coloro che si riprendono da COVID-19 hanno livelli bassi). La produzione di anticorpi anti-proteina S in laboratorio con tecniche innovative e avanzate, supera queste difficoltà e permette di ottenere un farmaco biologico più selezionato, più efficace, e in quantità elevata. Ad oggi lo sforzo della ricerca è focalizzato allo sviluppo di circa 20 anticorpi monoclonali, alcuni dei quali, sulla base dei risultati di studi clinici preliminari, sono stati approvati dalle autorità regolatorie americane ed europee in via provvisoria per uso in emergenza. Tuttavia nessuno degli anticorpi è efficace quando il quadro clinico si aggrava; al contrario studi clinici hanno dimostrato che, se somministrati in fase precoce, gli anticorpi monoclonali anti-SARS-CoV-2 riducono, la progressione della malattia grave, il ricovero ospedaliero e la mortalità dell’85-90%. E poi c’è il problema delle varianti del virus SARS-CoV-2, tra le più note quella inglese, sudafricana, brasiliana, e più recentemente indiana. Purtroppo non tutti gli anticorpi monoclonali anti-proteina S funzionano bene contro tutte le varianti note. Inoltre sembra migliore l’uso di combinazioni di anticorpi neutralizzanti (già sviluppati da alcune industrie), in quanto questo approccio riduce il rischio che il virus riesca a difendersi modificando leggermente la propria struttura (sono le varianti), e quindi sfuggire all’azione di singoli anticorpi. Va infine considerato che gli anticorpi monoclonali possono essere anche un mezzo di prevenzione dell’infezione SARS-CoV-2, oltre che di cura della malattia. È il caso di persone non vaccinate che per la loro professione possono essere più a rischio di infezione. In assenza di vaccinazione, il trattamento con anticorpi monoclonali potrebbe rappresentare una soluzione valida nella situazione in cui sia necessario procedere in emergenza all’immunizzazione del soggetto. Ma non solo anticorpi monoclonali per contrastare COVID-19; un approccio alternativo per bloccare l’interazione tra SARS-CoV-2 e le cellule è l’uso di mini-proteine inibitrici, attive a dosi bassissime, che si legano con alta affinità alla proteina S del virus. Ricercatori americani di Seattle e St Louis hanno dimostrato che due delle mini-proteine progettate prevengono l’infezione SARS-CoV-2 di cellule in coltura in laboratorio in modo più efficiente rispetto ai più potenti anticorpi monoclonali descritti finora”.
Lei che ha grande conoscenza farmacologica cosa ne pensa degli effetti indesiderati dei vaccini?
“A ciascun vaccino anti-Covid sono collegati potenziali effetti collaterali di lieve entità e transitori, come febbre, mal di testa, dolori articolari e muscolari. C’è la possibilità che si verifichino anche eventi avversi più seri, come la trombocitopenia autoimmune. Questa malattia, innescata dal nostro sistema immunitario in seguito al vaccino, porta ad una carenza di piastrine con conseguenti emorragie di gravità variabile, o eventi trombo-embolici. La possibilità che si manifestino questi eventi più severi è comunque bassa e irrilevante se paragonata ai benefici che un vaccino offre e al rischio di ammalarsi di Covid in modo grave. Per questo motivo tutte le agenzie regolatorie mondiali raccomandano la vaccinazione con qualsiasi vaccino disponibile. Maggior preoccupazione invece è stata sollevata da altri fenomeni di trombosi, altrettanto rari, che hanno interessato il seno venoso celebrale. Il numero relativo a questi casi è comunque piuttosto trascurabile rispetto al numero di vaccinati, molto elevato. Queste reazioni, avvenute in donne tra i 20 e i 50 anni in seguito della somministrazione del vaccino Vaxzevria, prodotto da AstraZeneca, hanno indotto le agenzie regolatorie a sospendere questo vaccino in via precauzionale, per poter approfondire e studiare le rare trombosi che si sono manifestate. Queste trombosi sono state definite VITT (Vaccine-Induced Thrombotic Thrombocytopenia ndr) in seguito a studi più approfonditi. Colpiscono principalmente il cervello e sono dovute alla produzione di anticorpi contro una particolare componente delle piastrine, in risposta al vaccino. Gli anticorpi, legandosi alle piastrine, scatenano da un lato la formazione di trombi (trombosi) e dall’altro influiscono sul numero delle piastrine, che si riduce. Questa quindi è una condizione grave che va necessariamente diagnosticata in tempo. Per questo motivo una volta ricevuto il vaccino, bisogna prestare attenzione ad alcuni sintomi che si possono osservare nel periodo tra il quarto e il quattordicesimo giorno dopo la vaccinazione: comparsa di lividi in parti del corpo che generalmente non sono soggette ad urti, forti dolori di testa, visione appannata, forti dolori addominali, affanno e dolori alle gambe. In caso di comparsa di uno o più di questi sintomi va chiamato subito il proprio medico o ci si deve rivolger al pronto soccorso in Ospedale”.
Pfizer ha deciso di posticipare la seconda dose del vaccino a 45 giorni. Come vede lei questa scelta e cosa comporterà a suo parere?
“Già a gennaio avevo avanzato questa proposta, condivisa da molti lavori scientifici a livello internazionale. Il motivo di ritardare la seconda dose è solo per cercare di vaccinare il doppio delle persone, con qualunque vaccino disponibile approvato dall'Ema, entro l'estate. Poi si procederà con la seconda dose. Purtroppo, il collo di bottiglia è la produzione. Pfizer aveva dichiarato già a gennaio che non ce l’avrebbe fatta a coprire il fabbisogno mondiale. Comunque, l’efficacia di una sola dose del vaccino Pfizer arriva all’80%. Questo significa che gli anticorpi prodotti ci proteggeranno dalla malattia grave ma non dal contrarre l’infezione. Per essere protetti dalla malattia grave, infatti, non c’è bisogno di un livello molto alto di anticorpi: i dati dell’Inghilterra dimostrano proprio come una singola dose sia riuscita a far crollare ricoveri e decessi”.
È sotto gli occhi di tutti la situazione dell'India che è tra l'altro il più grande produttore ed esportatore sia di vaccini che di medicinali. C'è il timore che la situazione interna del Paese possa creare un problema di distribuzione mondiale o ancor peggio di una riduzione dei farmaci nei confronti del resto del mondo?
“Sì, la nuova ondata di COVID-19 in questi ultimi mesi in India, ha reso drammatica la situazione socio-sanitaria in uno di paesi più popolosi al mondo. C’è però anche l’aspetto della produzione dei farmaci non solo per l’India ma per molti paesi nel mondo. Le grosse industrie farmaceutiche sono americano ed europee, ma pure loro fanno affidamento su una catena globale di rifornimento sia di ingredienti per la produzione di farmaci che del prodotto finale. L’India e la Cina hanno un ruolo centrale in questa attività. L’India è il terzo maggior produttore per volume di farmaci nel mondo, e fornisce il 20% dell’esportazione globale di farmaci generici, cioè farmaci il cui brevetto è scaduto, per cui possono essere prodotti e venduti da qualsiasi altra industria nel mondo, normalmente a prezzi inferiori rispetto a quelli del farmaco di marca. D’altra parte la fornitura dei farmaci generici dall’India è soprattutto rivolta ai paesi emergenti, i quali possono trovare nella Cina, un eventuale sostituto dell’India in caso di ridotta produzione in questo paese legata alla situazione pandemica. Ma il problema attuale dell’India, non è la capacità di produrre farmaci a sufficienza per le richieste esterne, ma di poter acceder ai nuovi farmaci antivirali anti-SARS-CoV-2 per uso interno, vista la gravità della pandemia e la diffusione della malattia nel paese. Per questo, recentemente, alcune importanti industrie farmaceutiche americane hanno stabilito accordi con diverse industrie farmaceutiche indiane per produrre i loro farmaci anti-virali sperimentali e distribuirli nel paese non appena ci sarà l’approvazione o l’autorizzazione d’emergenza da parte delle agenzie regolatorie locali. Altre industrie americane, il cui farmaco anti-SARS-CoV-2 è già stato approvato, oltre a fornire immediatamente il farmaco già disponibile, aiuteranno ad incrementarne la produzione nel paese”.
Il nostro mondo sta affrontando un nuovo virus che ci ha trovati impreparati. Ci sono altri campanelli d'allarme che stiamo sottovalutando come abbiamo fatto inizialmente con il Covid?
“Non direi. Visto il dramma creato dal nuovo virus SARS-CoV-2 nel 2020-21, l’attenzione ad indagare tutti gli aspetti della malattia è massima e continua, sia da parte delle Organizzazioni Internazionali di Salute Pubblica, dei principali Centri di Controllo delle Malattie Infettive nel mondo, i Ministeri della Sanità nazionali, sia da parte di Università, Centri di Ricerca pubblica e privata, e industria non solo farmaceutica. Ad esempio, si è fatto tesoro di quanto capitato con il problema dei farmaci anti-virali. Infatti, tralasciando il successo seppur parziale con remdesivir, un farmaco inizialmente sviluppato per il trattamento del virus dell’epatite C e dei Ebola, al momento della comparsa della pandemia SARS-CoV-2 praticamente non esistevano importanti farmaci antivirali candidati da testare contro il nuovo virus e metterli rapidamente a disposizione delle comunità. I ricercatori si sono lamentati per la carenza di opzioni terapeutiche. Oggi ci sono nuove iniziative per creare questi potenziali farmaci candidati. Ad esempio, l’Istituto Nazionale di Salute (NIH) negli Stati Uniti sta pianificando un programma per sviluppare farmaci contro le varianti di SARS-CoV-2 e contro altri virus che potenzialmente potrebbero causare pandemie. Inoltre, una coalizione di ricercatori supportata da industrie ha come obiettivo i virus influenzali e i coronavirus come SARS-CoV-2. Sempre negli Stati Uniti, alcuni gruppi di ricerca sperano di creare farmaci antivirali per virus diversi dai coronavirus, ma pure a rischio di potenziale rapida diffusione all’uomo e di creare epidemie. Non vogliamo aver un altro anno come il 2020, e non dobbiamo averlo, se si fa ricerca in anticipo. A questo proposito è di questi giorni la notizia pubblicata su Nature, uno dei più prestigiosi giornali scientifici al mondo, dell’efficacia di un nuovo potenziale vaccino sviluppato da un istituto americano (Duke Human Vaccine Institute, a Durham in North Carolina) nel proteggere scimmie e topi da numerose infezioni da coronavirus, compresi SARS-CoV-2, l’originale SARS-CoV-1, e tutta una serie di coronavirus presenti nei pipistrelli che potenzialmente potrebbero causare la prossima pandemia.
Ci sono state tre epidemie da coronavirus negli ultimi 20 anni, e come afferma il Dr Barton Haynes, uno degli autori di questa ricerca, “Questo lavoro rappresenta una piattaforma che potrebbe prevenire, mitigare rapidamente, o porre fine ad una pandemia”.
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