I debiti del giustizialismo

Quante volte un'inchiesta giudiziaria che ha azzoppato un leader o, addirittura, ha condizionato o interrotto una fase politica è finita in un'assoluzione o addirittura in un'archiviazione prima del processo? Tante. Troppe

I debiti del giustizialismo
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Quante volte un'inchiesta giudiziaria che ha azzoppato un leader o, addirittura, ha condizionato o interrotto una fase politica è finita in un'assoluzione o addirittura in un'archiviazione prima del processo? Tante. Troppe. Ne sanno qualcosa Berlusconi, Salvini, Renzi (per parlare solo della seconda Repubblica), ma anche esponenti di medio calibro della politica che si sono visti rovinare la carriera da iniziative giudiziarie che poi non hanno portato a nulla.

Ed ancora: quante volte le procure, quelle più politicizzate, hanno preso di mira una maggioranza o il partito principale di una coalizione di governo che ha tentato di riformare un sistema giudiziario che continua ad essere ancora oggi inefficiente e ingiusto? Innumerevoli. Dal decreto di Alfredo Biondi del primo governo Berlusconi in poi, il filo che lega l'intera storia della Seconda Repubblica è lo scontro sulla giustizia. Che al di là dei casi personali vede sul palcoscenico due poteri, quello politico e quello giudiziario. Con il secondo che non riconosce al primo la possibilità di legiferare sulle proprie prerogative per paura di perdere l'influenza che era riuscito a strappare negli anni di Tangentopoli.

Uno scontro che ha avuto le sue vittime: personaggi esposti al pubblico ludibrio dal circo mediatico-giudiziario, vittime di accuse che poi si sono sciolte come neve al sole ma che nel frattempo hanno determinato conseguenze politiche. Anche perché l'obiettivo di certe inchieste che hanno costellato questi trent'anni era, appunto, squisitamente politico: i racconti di Luca Palamara, un ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, ora trattato dai suoi colleghi né più, né meno come i mafiosi un tempo trattarono il pentito Tommaso Buscetta, stanno lì a dimostrarlo.

Uno scontro che ha visto da una parte un potere compatto, almeno nelle sue avanguardie (quello giudiziario), e un altro diviso perché in politica c'è sempre chi tenta di approfittare dei guai dell'avversario, salvo poi riconoscere che qualcosa non funziona quando a sua volta si diventa bersaglio. Uno scontro che era nelle cose perché un potere punta sempre ad allargare la sua sfera di influenza, è inevitabile: non per nulla un principio sacrosanto come l'autonomia della magistratura nella nostra Costituzione aveva come contrappeso l'immunità parlamentare, che fu attenuata nel 1993 aprendo la strada allo strapotere delle toghe. Un istituto che un giurista illustre come Costantino Mortati aveva voluto alla Costituente per evitare che un atto dell'autorità giudiziaria potesse essere ispirato da una valutazione o da un orientamento politico. E allora non c'erano le toghe rosse o le correnti in magistratura.

Risultato: a ripercorrere con la memoria questi trent'anni troviamo tante carriere spezzate da

indagini farlocche e, ancora peggio, governi silurati e stagioni politiche interrotte da iniziative mediatico-giudfiziarie inventate. Il debito pesante che il giustizialismo nostrano ha contratto con le vittime e il Paese.

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