L'anima triste dei 5stelle la interpreta lo stesso Fondatore, Beppe Grillo, ma solo nelle cene lontane dalla politica. In quelle occasioni, racconta qualche commensale, quando gli tirano in ballo il nome di Giggino Di Maio, sul viso del Garante dei grillismo traspare un'espressione delusa, accompagnata da una frase che è diventata un rito: «Lasciamo stare!». Elogi sperticati, invece, per il presidente della Camera Roberto Fico e simpatia anche per il Dibba «silenziato». Addirittura Grillo si mostra solidale con Virginia Raggi, obiettivo di mille attacchi: «Ha contro tutti, è diventata anoressica». Mentre diventa nervoso quando confida le risposte che riceve dall'«anima governativa» del movimento: «Dico che bisognerebbe essere più duri con la Lega e mi rispondono che se andiamo alle elezioni scendiamo sotto il 20%». Tesi che ai suoi occhi, però, non spiega come possa essere accaduto tutto questo. Eppure è accaduto. Ed il primo a saperlo è proprio il Profeta a 5stelle, che usa un metro tutto suo per misurare l'umore della gente: «Prima, nei miei spettacoli, facevo il tutto esaurito. Oggi, invece, vedo poltrone vuote. Sono contestato prima dello spettacolo, dopo e magari anche durante... che tristezza!».
Ebbene, Matteo Salvini, che è diventato l'unico architrave solido della maggioranza gialloverde, deve fare i conti con questo umore: secondo la maga Ghisleri il 42% degli elettori grillini è scontento per i cedimenti alla Lega e il 19% per l'impreparazione dei ministri, per cui oggi il 61% del loro elettorato ha dubbi a rivotarli. Ogni giorno che passa l'amico-alleato, Giggino Di Maio, diventa più debole: nel movimento e nel Paese. E più passano i giorni e più il leader leghista si accorge di essere nella classica condizione del cane che si morde la coda: deve essere prudente e comprensivo su temi come la Tav e l'autonomia per non spingere Di Maio nel precipizio; ma, contemporaneamente, sa benissimo che se non porta a casa risultati su argomenti identitari per la Lega, specie al Nord, rischia nel tempo di seguire il partner nello stesso precipizio.
Così alterna propaganda, ultimatum e parole concilianti, nell'intento di strappare dei sì all'alleato senza far crollare quel castello dalle fondamenta di sabbia che è il governo Conte. Usando pazienza di fronte ai niet sempre meno decisi di Di Maio, ben sapendo che prima o, al massimo, dopo le elezioni europee, dovranno trasformarsi in sì se non vuole che la Lega imbocchi la stessa la parabola discendente dei grillini nei sondaggi. Da qui le ragioni dei tira e molla e dei rinvii. «Noi - ammette senza accettare repliche il sottosegretario leghista Claudio Durigon - dobbiamo centrare tutti gli obiettivi: dalla Tav all'Autonomia». Mentre il sottosegretario all'Economia, Massimo Garavaglia, osserva in maniera più analitica: «I grillini non possono chiederci di scegliere tra l'autonomia e la Tav. Sarebbe come chiedere ad un padre chi preferisce tra le sue figlie». Un'affermazione che nasconde il ragionamento semplice che Salvini fa a Di Maio: ora l'alleanza gialloverde si regge sulla Lega; indebolirne i temi significa mettere a repentaglio il consenso di quella che è oggi la principale forza di governo; ergo, si rischia di andare all'esecutivo tecnico o alle elezioni. Un atteggiamento avvolgente che mette i 5stelle di fronte all'opzione: morire o abbozzare per sopravvivere. «Io credo - è l'epilogo del ragionamento di Garavaglia - che i grillini possano anche cambiare».
E probabilmente l'anima governativo-dorotea muterà. Ieri, mentre Di Battista e Airola minacciavano di lasciare il movimento di fronte a un sì alla Tav, alla Camera il vice presidente della commissione Attività produttive, il 5stelle Luca Carabetta, rassicurava un leghista sullo stesso argomento: «Ma dai! Alla fine una soluzione la troviamo. Magari gli cambiamo nome. Portiamo a compimento ciò che abbiamo iniziato. E investiamo le risorse risparmiate in un'infrastruttura per il Sud». Appunto, Pav o Rav, cosa cambia? E questo dà un'idea della disperazione a 5stelle. La stessa disperazione che spinge il parlamentare europeo, Ignazio Corrao, a confidare ad un amico: «Con le politiche che abbiamo fatto, abbiamo difficoltà a trovare candidati al Nord per Strasburgo».
Tutte queste cose Salvini le sa. E il leader leghista sa pure di essere assediato non tanto dagli avversari (ancora troppo deboli), quanto dalle contraddizioni della «formula» gialloverde. Per cui, se da una parte tenta di cambiare i grillini, dall'altra studia la possibilità di puntellare l'attuale maggioranza con altre forze (la Meloni e i possibili fuoriusciti di Forza Italia). E, in ultima analisi, non rompe neppure con Berlusconi: non si sa mai. Lo sottopone, a giorni alterni, ad una doccia calda e ad una fredda. Ne saggia la capacità di resistenza. In Sardegna, al Cav che gli chiedeva di ufficializzare la candidatura dell'esponente di Forza Italia per la Regione Piemonte, Alberto Cirio, il leader della Lega ha risposto: «Non c'è fretta!». L'altro giorno, invece, ha telefonato di primo mattino all'alleato per negare di aver mai pronunciato la frase «mai più con il vecchio centrodestra».
Insomma, il leader leghista cerca di dare le carte a tutti, non si preclude nessuna strada, sapendo che in Italia un giorno sei sull'altare, l'altro nella polvere: come i grillini che, dieci mesi fa, erano in Paradiso e ora sono nel primo girone dell'Inferno.
Salvini è pragmatico, ragiona solo ed esclusivamente in base ai rapporti di forza: nel Paese come in Parlamento. Qualcuno dentro Forza Italia lo ha capito. «Matteo - sostiene Laura Ravetto - non regala niente: di noi, lo dico ai miei colleghi, non vuole nessuno se non ne ha bisogno». «Lui - sostiene il presidente della commissione di Vigilianza Rai, Alberto Barachini - farà un'intesa con Berlusconi solo se non ne potrà fare a meno. Ma se riuscissimo a centrare l'obiettivo del 12% alle Europee, potremmo fare grandi cose: non riusciremmo ad interpretare il ruolo della Dc come una volta, ma quello di Craxi sì».
Altri, invece, continuano a nascondersi la realtà. Da mesi Maurizio Gasparri, da presidente della Giunta del Senato, tiene sulla scrivania la questione di Fulvia Caligiuri e Michele Boccardi, due esponenti di Forza Italia che, per errori elettorali, dovrebbero subentrare la prima a Matteo Salvini in un collegio della Calabria (il leader leghista a quel punto opterebbe per un seggio a Roma) e il secondo a Carmela Minuto, azzurra in odor di Lega. Il governo gialloverde in Senato può contare solo su quattro voti di maggioranza.
Per cui non c'è bisogno della sfera di cristallo per prevedere che, con il movimento 5stelle in ebollizione, nelle prossime settimane e mesi la maggioranza ballerà sul filo del rasoio. Ma, a quanto pare, da quelle parti, strani calcoli astrali si sostituiscono al pallottoliere.
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