"Io e la mia famiglia, una vita in quarantena"

Vito, Andrea e la ceroidolipofuscinosi

"Io e la mia famiglia, una vita in quarantena"

“Per noi tutti i giorni c’è l’emergenza del coronavirus…”: Francesco Spera, 53 anni, non ha un tono rassegnato o piegato dallo sconforto. Tutt’altro, ha la piena consapevolezza della sua battaglia civile e silenziosa. Perché forse nasca una forza interiore quando la situazione appare disperata. Francesco è vicepresidente dell’Associazione Nazionale Ceroidolipofuscinosi A-NCL (www.a-ncl.it). Un volontariato nato dalla sua battaglia quotidiana assieme alla moglie Maria per i figli Vito, 20 anni e Andrea, 17. La ceroidolipofuscinosi neuronale è una rara malattia genetica neurodegenerativa, ne soffrono circa 40 giovani e giovanissimi in Italia, che consiste nell’accumulo eccessivo di sostanze nei lisosomi cellulari, cioè negli “apparati digerenti” delle cellule. Che in pratica perdono la loro funzionalità.

Come si traduce nella vita dei suoi figli questa malattia?

“Da oltre 10 anni Vito e Andrea sono bloccati nei loro letti, in ventilazione assistita, necessitano di assistenza sanitaria 24 ore su 24. Saturimetri, capnografi, ventilatori polmonari, cateteri venosi, terapie farmacologiche fanno parte da almeno 5 anni dell’arredamento di casa nostra. Non possono mangiare se non tramite sonda PEG allo stomaco, non possono respirare se non dopo una tracheotomia che hanno subito entrambi. E necessitano di assistenza sanitaria specifica 24 ore su 24”.

In che senso per voi tutti i giorni è emergenza coronavirus?

“Dal 2015 abbiamo avuto l’aiuto dell’ASL con infermieri che hanno prestato la necessaria assistenza sanitaria a Vito e ad Andrea. Ma il 21 marzo 2020 io e mia moglie siamo rimasti soli fino a giugno, perché l’ASL aveva precettato il personale sul territorio per fronteggiare il coronavirus. Poi a giugno, dopo mie varie richieste, sono tornati gli infermieri ma con un turn over che non consente una continuità assistenziale necessaria viste le condizioni dei miei figli”.

Come inizia la difficile storia di Vito e Andrea?

“Il 2 dicembre 2000 io e mia moglie Maria riceviamo il più bel dono di Dio: nasce il nostro primogenito, Vito. Io l’avevo talmente desiderato e sognato che mi pareva già di averlo ancor prima che venisse al mondo. Era un bambino bellissimo e sano, aveva solo un ritardo nel pronunciare le prime parole che però all’epoca non aveva preoccupato né noi né i medici”.

Poi invece cosa è successo?

“Verso i 3 anni e mezzo Vito ha iniziato ad avere problemi: cadeva a terra, aveva improvvise e violente crisi epilettiche. Nel 2004 lo portammo agli Ospedali Riuniti di Foggia, ma i medici non capivano cosa avesse. Poi andammo a Genova, al Gaslini. Lì Vito fu sottoposto a risonanze magnetiche, analisi ematiche, radiografie, elettroencefalogrammi, i PEV per la vista, insomma un sacco di esami. Vito intanto faceva sempre più fatica a camminare, a parlare, a tenere in mano gli oggetti. Provarono a curare la malattia con terapie sperimentali, con un ciclo di ACTH, un cortisonico per cercare di alleviare le infiammazioni delle membrane cerebrali. All’inizio sembrava avere effetti positivi, ma fu una speranza breve, di un mese e mezzo. Perché la situazione tornò a peggiorare proprio a livello psicomotorio. Fino a quando non ci arrivò la mazzata”.

Quale mazzata?

“Agli inizi del 2006, eravamo al Gaslini da maggio 2005, i medici di Genova dissero a me e a mia moglie Maria che nostro figlio Vito aveva una rara malattia neurodegenerativa chiamata ceroidolipofuscinosi neuronale per la quale non esisteva al mondo una cura. Non ne avevamo mi sentito parlare, ma non era tutto. Perché i medici ci dissero che era una malattia autosomica recessiva, cioè era stata trasmessa per via genetica. Praticamente io e mia moglie siamo portatori sani di questo difetto genetico. Ci è caduto il mondo addosso. In quei mesi tra il 2005 e il 2006 lasciavo mia moglie al Gaslini e tornavo a Margherita di Savoia al mio lavoro di contabile in un’azienda del posto. Poi ritornavo a Genova. Attraversavo l’Italia con la speranza nel cuore, tutto spazzato via. L’unico lumicino di speranza che ci avevano lasciato era l’ospedale Bambin Gesù di Roma”.

Quindi avete portato Vito nella Capitale?

“Certo. Ma lì ci tolsero ogni speranza. L’esame genetico confermò la malattia degenerativa. Al massimo potevano essere alleviate con i farmaci le crisi convulsive. Nel frattempo Vito non riusciva più a camminare, lo spostavamo dal suo lettino nella cameretta al passeggino. Aveva problemi di deglutizione, di vista, dovevamo assisterlo anche per i suoi bisogni, fummo costretti a non togliergli più il pannolino. Le crisi convulsive si susseguivano, a volte ci costringevano a correre a Roma dalla Puglia, da casa nostra. Il riempimento di sostanze delle cellule nervose stava mostrando tutta la sua devastazione. Eppure io e mia moglie cercavamo di non perdere del tutto la speranza…”

In che modo vi siete fatti forza?

“Il 5 dicembre 2003 è nato Andrea, il nostro secondogenito. Nonostante le preoccupazioni dei medici per la trasmissibilità della ceroidolipofuscinosi, Andrea stava bene. Ricordo quando l’Italia vinse i Mondiali del 2006 correva felice come un pazzo con la bandiera dell’Italia. Faceva su e giù per tutta la casa. Ma poi lo portammo a Roma e gli fecero l’esame genetico, che confermò purtroppo la prima diagnosi: anche Andrea aveva la ceroidolipofuscinosi. Si era acceso un lumicino di speranza, eravamo di nuovo al buio. Ma a quel punto abbiamo deciso di alzare la testa e non limitarci a subire un destino che sembrava essersi accanito su di noi”.

In che senso avete “sfidato” un destino così avverso?

“Io e mia moglie Maria abbiamo deciso di goderci almeno Andrea il più possibile, come se questa dannata malattia non ci fosse. Non so cosa sia scattato nel nostro cuore di genitori, forse una difesa, forse l’amore per un figlio. Sentivamo di volerci difendere da un destino che si era accanito contro di noi. Andrea è sempre stato vivace, gli piacciono le giostre, lo portavo fuori anche la sera tardi a vedere le luci della festa o in sala giochi. Siamo andati spesso al mare. Anche se sapevamo che la nostra era una felicità a tempo determinato”.

Poi la malattia si è manifestata anche su Andrea?

“Nel 2007, era un giorno d’agosto, Andrea cade e non riesce più ad alzarsi in piedi da solo. Io e Maria non volevamo crederci, pensavamo si fosse fatto male. Lo portammo persino a fare delle radiografie. Macché, niente. Oramai aveva una crisi neurologica che gli aveva messo fuori uso per sempre le gambe. Da lì capimmo che la malattia ci aveva preso anche Andrea”.

E Vito nel frattempo?

“Nel frattempo Vito continuava a peggiorare, aveva perso completamente la vista e nel 2008 lo portammo a San Giovanni Rotondo, alla Casa Sollievo della Sofferenza, per fargli impiantare la PEG allo stomaco. Perché altrimenti non avremmo potuto più nutrire nostro figlio. Fu tremendo, non potevamo nemmeno più dargli da mangiare. Un papà e una mamma che non riescono fisicamente a nutrire il bene più grande e prezioso che hanno al mondo”.

Oggi come vivono Vito e Andrea?

Vito e Andrea oggi sono bloccati nei loro letti, hanno 20 e 17 anni. Sono nella loro stanza, praticamente con gli occhi fissi verso il soffitto. Non riusciamo a metterli nemmeno in un passeggino, da quando avevano 6-7 anni. Hanno gravi problemi respiratori, persino più pericolosi delle convulsioni. Sono stati ricoverati più volte all’ospedale di Cerignola, nel reparto dei malati di fibrosi cistica, per un percorso sanitario con antibiotici per combattere le infezioni polmonari. Abbiamo trovato anche lì persone, medici e infermieri, meravigliose. Questi problemi hanno però comportato una tracheotomia, altrimenti sarebbero morti soffocati. E del resto io e mia moglie Maria nel 2015 abbiamo già visto i nostri figli un po’ morire: nel 2015 avevano preso l’H1N1, un virus micidiale. La loro ora sembrava arrivata, ma c’è stato un miracolo, o non so come chiamarlo, per cui Vito e Andrea hanno superato la crisi”.

Dove trovate la forza di combattere, lei e sua moglie?

“I nostri sentimenti di papà e mamma si sono come stratificati nel tempo. Lo smarrimento iniziale, eravamo anche più giovani, la disperazione, il non sapere a che Santo votarsi, la gioia di un figlio appena nato e sognato, Vito, che si trasforma in disperazione per un destino cui non si può sfuggire. Questa montagna ci è franata addosso così improvvisa che non abbiamo quasi realizzato. Con Andrea eravamo in qualche modo più preparati emotivamente, siamo riusciti persino a godercelo un po’ prima della tempesta. E poi è arrivata una novità…”.

Quale novità?

Il 21 marzo 2011 è nato Christian, il nostro terzo figlio. Una nuova speranza. Con il Bambin Gesù siamo riusciti tramite villocentesi a conoscere il DNA: era sano! Non riuscivamo a crederci! La dottoressa ci ha telefonato piangendo e dicendoci che il DNA di Christian non presentava la ceroidolipofuscinosi. Io e Maria ci siamo guardati e abbiam pianto senza dire una parola! Per l’8 marzo, l’altro giorno, ha scritto: Le madri sono importanti, fanno tutto per la famiglia e non è molto facile curare 2 figli, lei per me è una super eroina. E nonostante tutto è sempre felice!”. La voce di Francesco Spera s’incrina un po’ per l’emozione, accanto a lui come sempre c’è la moglie Maria.

La loro battaglia è quella di circa 40 famiglie in Italia che lottano tutti i giorni per i loro figli affetti da questa malattia dal nome così oscuro e sinistro, la ceroidolipofuscinosi. Perché, certo, c’è l’Italia dei 100mila morti per coronavirus. Ma c’è anche l’Italia della stanzetta di Vito e Andrea e dei malati come loro, chiusi in una quarantena senza fine.

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