L'arbitro che vede "nero" e il tic del razzismo a comando

Non ci voleva un arbitro romeno per spiegare che il mondo del calcio è razzista. Basterebbe leggere gli striscioni appesi in certi stadi

L'arbitro che vede "nero" e il tic del razzismo a comando

Non ci voleva un arbitro romeno per spiegare che il mondo del calcio è razzista. Basterebbe leggere gli striscioni appesi in certi stadi. Ogni tanto, però, bisognerebbe sapere distinguere il razzismo del «negro» detto come dispregiativo e il «negru» detto perché nella lingua madre così si traduce il termine «nero». Salvataggio in corner? Può darsi. Il dispregiativo è un moto dell'animo, una luce interrotta del cervello. Lo sport vive e ha vissuto di neri che magari diventano negri: spesso razzismo, talvolta stupidità, ignoranza, incoscienza del problema. Però lo sport, e così il calcio, ha vissuto parlando, per anni, di negri senza mai escluderli, anzi includendoli, facendone idoli, apprezzandone bravura e intelligenza. Insomma, guai a chi glieli tocca. E, comunque, questo è un mondo in cui esistono bianchi, neri, gialli e rossi di colore. Dobbiamo accettarlo. Credete forse che i disabili abbiano piacere a sentirsi chiamare «diversamente abili»? Sarebbe meglio per i cosiddetti «normodotati» (questo non è razzismo?) sentirsi chiamare «diversamente bianco» o «diversamente nero»? Oggi ci sono categorie umane, specie, razze, fate voi, sulle quali non puoi dire nulla, nemmeno mostrare un senso minimamente critico: non offensivo, solo critico. Eppure nessuno è perfetto. Un'idea sostenuta da Jorge Jesus, allenatore del Benfica, uomo controcorrente. «Ormai parlare di razzismo fa moda. Qualsiasi cosa fatta contro un nero è razzismo. Detto di un bianco non lo è». Giusto domandarsi: con quali occhi guardiamo? Vogliamo provarci con gli occhi di ragazzi neri che ne soffrono? Non ci riusciremmo, anche se in certi Paesi puoi sentirti dare del «bianco» in senso spregiativo. Si parla pure di «terroni», ma nessuno alza un dito. Non dobbiamo mai abbassare la guardia, il calcio potrebbe anche rileggere certi suoi comportamenti: al di là di un colore della pelle.

Martedì l'arbitro in questione pare abbia esagerato nel rivolgere frasi denigratorie pure in precedenza: la squalifica dell'uomo è totale. Però servirebbe una cultura superiore in tutti: bianchi e neri. Grandi campioni di colore ci hanno abbagliati, li abbiamo seguiti nelle battaglie culturali, ma non si sono aggrappati alle minutaglie di una parola infelice. Qui sta l'intelligenza che deve prevalere: e quella di certo non ha colore. Il Black power di due grandi personaggi dell'atletica è stato esplicitato con un segno e nessuna parola. Ed è rimasto nella storia.

Tornando a Parigi: se, per assurdo, l'arbitro anziché segnalare il «negru», evidentemente più riconoscibile (aveva una tuta, non una maglia) in mezzo a gente bianca, avesse, e con lo stesso intento, indicato a voce quel «bianco» in mezzo ad altri ragazzi neri, qualcuno si sarebbe scandalizzato? Non stiamo parlando di «Black matters», stiamo parlando di una partita di calcio. Sarà difficile, quasi impossibile, che lo sport riesca a battere in modo definitivo il razzismo, ma non crediamo che l'episodio di Parigi, la presa di posizione delle squadre che hanno abbandonato il campo, possa porre una pietra storica.

Morirono centinaia di persone all'Heysel eppure il calcio giocò: si disse per motivi di ordine pubblico. Stavolta non c'era pubblico ed è stato più facile prendere una decisione. Sarebbe successo davanti a 60mila persone? Provateci e anche questo calcio sarà più credibile.

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