Il sipario sulle Olimpiadi è calato, e meno male che ci sono state le straordinarie soddisfazioni sportive e umane regalateci dagli atleti azzurri. Ciò che invece non finirà, perché inscritto in un percorso che parte da lontano, è l'attacco alle donne, un attacco ormai consolidato a livello internazionale, che questa edizione dei Giochi ha reso evidente.
Solo per limitarci agli ultimi giorni, dai giochi «inclusivi» di Parigi è stata infatti esclusa, con una squalifica che ha dello sconcertante, un'atleta afghana, della «squadra dei rifugiati» istituita dal Comitato Olimpico, che aveva mostrato la scritta «Liberate le donne afghane». Nel cuore di un Occidente sempre più orwelliano, la giovane afghana è stata messa fuori gioco per aver ricordato al mondo i motivi per cui era costretta a gareggiare fra i rifugiati, e per i quali tante sue connazionali sono espropriate dei diritti più elementari.
Nelle stesse ore, commentando le polemiche che hanno accompagnato le competizioni di pugilato femminile, il presidente del Comitato Olimpico, Thomas Bach, ha affermato che non ci sarebbe un sistema «scientificamente solido» per distinguere uomini e donne. Senza rendersi conto, tra l'altro, che un'affermazione del genere toglie senso alla tradizione di gare sportive divise per categorie maschili e femminili. Se non è scientificamente possibile distinguere gli appartenenti ai due sessi, come si fa a gareggiare separati?
Le due questioni sono purtroppo due facce della stessa medaglia. Una medaglia che non ha niente a che fare con i trionfi olimpici, ma che rappresenta le pericolose e sottili forme di un nuovo patriarcato, che in nome di una «inclusività» divisiva vuole cancellare le faticose conquiste delle donne.
Sia nel caso dell'afghana sia in quello dell'assegnazione degli atleti alle competizioni dell'uno o dell'altro genere, si tratta di un attacco alla identità femminile, non riconoscendo la realtà del corpo sessuato. È un attacco che in queste Olimpiadi ha compiuto un salto di qualità e cercato una legittimazione planetaria.
È infatti proprio sul corpo delle donne che in tante parti del mondo, come in Afghanistan, si esercitano l'oppressione e il controllo più feroci, è per il loro corpo che alle donne vengono sottratte le libertà fondamentali. E oggi si vorrebbe annegare il femminile in una inesistente neutralità del genere, che minaccia l'identità delle donne: ma non quella maschile.
Da tempo denunciamo che le battaglie per le pari opportunità sono incompatibili con la «fluidità» di ogni ordine e grado, perché le pari opportunità si fondano sull'esistenza della differenza sessuale. È evidente che a pagarne lo scotto sono le donne perché, per esempio, non si ha notizia di un caso analogo a quello di Imane Khelif in ambito maschile. Così come di nessuna donna con identità «fluida» che chieda di gareggiare con gli uomini, o di entrare in spazi maschili (carceri, bagni, spogliatoi, ecc.). È dunque profondamente contraddittorio che a sostenere la fluidità siano proprio le stesse parti politiche e culturali che pretenderebbero la rappresentanza esclusiva delle battaglie delle donne.
Le Olimpiadi francesi, prima ancora che per le acque della Senna, verranno ricordate per questo: per aver segnato un salto quantico nell'attacco alle donne che si nasconde dietro l'ideologia woke. Nei prossimi Giochi, per logica conseguenza, ci aspettiamo che sia abolita la divisione fra maschi e femmine nelle competizioni agonistiche, che potrebbero a questo punto essere accorpate in un unico genere «neutro», per impossibilità di distinguere «scientificamente» gli appartenenti all'uno o all'altro sesso.
Sembra uno
scherzo, ma non lo è. È il dominio dell'asterisco, la dittatura della schwa. Con la benedizione delle acque opache della Senna, efficace metafora di un'ideologia alla quale continueremo a opporci con tutte le nostre forze.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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