In vista dell'omaggio reso ieri a Gianfranco Miglio al Pirellone, ho pubblicato un cinguettio: «Oggi Miglio avrebbe 100 anni, ma se fosse vivo mi sentirei più tranquillo». Qualcuno mi chiede perché. Io invece mi chiedo perché, avendolo avuto a portata di mano tanti anni fa, non andai a cercarlo. Frequentavo l'Università (...)
(...) Cattolica di Milano, la stessa dove lui è stato preside della facoltà di Scienze politiche per trent'anni, dal 1959 al 1989. Sarebbe bastato bazzicare una sua lezione per conoscerlo, parlargli, imparare. Ma c'era tanto altro da fare, lo studio, il lavoro, le ragazze e altre allegrie.
I miei erano altri studi, è vero, ma mi avevano colpito i suoi su Economia e società di Max Weber, un saggio che non conoscevo e che - per la verità - pochi conoscevano. Anche i suoi studi per la Fisa (Fondazione italiana per la storia amministrativa), fondata da lui, erano eccezionali: il progetto, ambiziosissimo sotto quel nome noioso, voleva ricostruire l'evoluzione storica dello Stato moderno, dal Medioevo in poi. E anche gli «Acta Italica», una collana della Fisa, promettevano risultati notevoli: studiava l'amministrazione degli Stati italiani preunitari.
Qualcosa bolliva nella grande pentola di Miglio, insomma. Ma quasi tutti ce ne accorgemmo soltanto quando diventò l'«ideologo» della Lega Nord di Umberto Bossi, ai primi successi. Furono in molti, allora, a cercare un suo saggio del 1969, fondamentale, su Le contraddizioni dello stato unitario. Vi aveva scritto, fra l'altro, che fu un clamoroso errore costringere tutte le regioni annesse a adottare le norme piemontesi. Invece Cavour, al momento dell'annessione della Lombardia, aveva voluto che la regione mantenesse una parte delle norme austriache. È quello che la Regione Lombardia sta cercando di ottenere oggi, dopo il referendum sull'autonomia.
Costringere tutta l'Italia, d'improvviso, a adottare leggi e norme che andavano bene (se andavano bene) in Piemonte, fu come «far indossare a un gigante il vestito di un nano», scrisse: me ne sarei ricordato, sempre rimpiangendo di non averne parlato con lui, quando nel 2011 pubblicai Il sangue del Sud - Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio. Quella decisione sciagurata dei successori di Cavour fu appunto una delle cause della guerra civile che venne chiamata «lotta al brigantaggio».
Miglio lanciò poi, negli anni Ottanta, idee sulle quali si dibatte ancora oggi, ma che allora nessuno prese in considerazione: l'elezione diretta del capo del governo insieme a quella della Camera, maggiori poteri al primo ministro, fine del bicameralismo perfetto, Senato delle regioni. Con un'altra sua anticipazione degli anni Ottanta, al crollo del Muro, intuì che - con l'aumentato benessere dovuto all'economia di mercato e alla tecnologia - il cittadino avrebbe avuto sempre meno fiducia nell'apparato statale e nella sua lenta, complessa burocrazia: e che sarebbero nate nuove forme di aggregazione politica, capaci di mettere in crisi i partiti.
E infatti esplode il successo di Bossi e della Lega, figli inconsapevoli di Miglio, che aveva teorizzato già negli anni Quaranta un'Italia fatta di tre grandi regioni federate, sul modello svizzero. Divenuti adolescenti, Bossi e la Lega rigettarono il padre, dopo averlo fatto diventare senatore. Normale: loro volevano conquistare il potere, da politici, lui voleva costruire lo Stato ideale, da studioso. Litigarono fino al pubblico scambio di insulti, anticipatori anche in quello.
Il suo sorriso ironico e grintoso, il suo parlare direttissimo spiazzavano: «Un partito non è molto diverso da una cosca mafiosa, anche se è fatto di santi, perché implica, a un certo punto, un rapporto di omertà». I partiti, gli intellettuali, i giornali, lo temevano come un cane rabbioso, e si capisce: metteva in piazza qualcosa che era nell'aria, ma che si preferiva far finta di non vedere. Trovai irritante che si attaccasse in un simile modo un pensatore, anche se faceva politica e, insieme a Claudia Rocchini, pensammo di tirare uno scherzo a Cuore, il più accanito denigratore di Miglio. Fabbricammo una notizia falsa (un appunto autografo che Claudia girò a Michele Serra, dicendogli che l'aveva trovato sotto il letto di Miglio, malato in ospedale). Era la dichiarazione d'indipendenza della Padania e Cuore la pubblicò clamorosamente in tutta la prima pagina, a fine ottobre 1993. Peccato per Cuore che lo stesso mattino ci fosse in edicola il Giornale con - sempre in prima pagina - la notizia che lo scherzo era riuscito: in realtà quel testo era di Lenin. Miglio avrebbe voluto costituire un laboratorio politico, composto da studiosi che elaborassero regole completamente nuove per la convivenza civile. C'era, in Italia, negli stessi anni Novanta, un'altra studiosa che voleva la stessa cosa e che pubblicò Per una rivoluzione italiana. Ida Magli cercò di seminare le sue idee con i potenti, da Berlusconi in giù. Ci riuscì con Bossi e Miglio, ma non ne venne fuori nulla. Lei, così rivoluzionaria da essere sbalzata fuori dall'università, non si accontentava di voler riformare le istituzioni, voleva cambiare la società, il mondo di vivere, di imparare, di insegnare. Diceva dell'Europa, a metà degli anni Novanta, ciò che gran parte degli italiani avrebbero cominciato a dire quindici e vent'anni dopo, inascoltata se non sbeffeggiata. Un'altra Cassandra. Tutti e due non potevano che essere scansati dalla politica.
Adesso
mi chiedono, da Twitter, perché sarei più tranquillo se Miglio fosse ancora vivo. Perché, a voi una maggiore presenza in politica dell'intelligenza, della sapienza, della capacità di guardare oltre, non tranquillizzerebbe?
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