«Chiedere lo stop ai licenziamenti mi sembra un modo di pensare regressivo, sbagliato e pericoloso sul piano sociale». Siamo nei primi anni Settanta del secolo scorso? Direi di no, visto che sono parole del segretario della Cgil, Maurizio Landini, all'epoca poco più che undicenne. Ma la mentalità è rimasta la stessa, anzi, per certi aspetti più «regressiva», visto che il leader di allora era Luciano Lama, capace di combattere la tesi del «salario variabile indipendente». Non pago, Landini ha minacciato lo sciopero generale, ed è un suo diritto, ma ha evocato scenari di «scontro sociale» (quindi di violenza, le parole hanno un senso) se il governo non avesse prorogato il blocco dei licenziamenti fino a fine dicembre. E Conte e Gualtieri hanno risposto, con una proposta che sembra un compromesso al ribasso e che in ogni caso prolunga di 18 settimane il blocco. Non serve essere laureati in economia per sapere che in tal modo i disoccupati aumenteranno: oltre a coloro che comunque non saranno assunti, si aggiungeranno quelli causati dal fallimento di molte aziende, se il governo intraprendesse questa folle decisione. Come al solito i sindacati, e quello rosso in particolare, non tutelano solo l'interesse dei loro iscritti: più che sindacati, sono ormai corporazioni. Ma il blocco dei licenziamenti è un obbrobrio soprattutto sul piano etico-politico. In primis per l'immagine dell'imprenditore che Landini e una parte del governo sembrano possedere. Un pescecane che attende solo di cacciare i lavoratori assunti, e formati con grande sforzo e investimento. Nessuno che abbia una minima conoscenza degli imprenditori veri e che non sia infiammato da ideologie collettivistiche e, diciamolo, comuniste, condividerebbe una tale visione. Qui non siamo neanche più negli anni Settanta del secolo scorso, ma in quelli di due secoli fa. In secondo luogo c'è una questione di legittimità. È autorizzato lo Stato as imporre una misura draconiana a soggetti liberi, quali le imprese? In un sistema collettivistico, e in Venezuela, sì. Nel nostro, il governo non può arrogarsi questo tipo di potestà. Tecnicamente sì, può farlo, basta un decreto: ma poi così facendo romperebbe violentemente il patto, secondo il quale riconosciamo la legittimità di un governo solo se questo rispetta le nostre libertà. E bloccare il licenziamento è un pugno in volto alla libertà.
Il blocco poteva infatti avere senso (ma è da vedere) nei momenti più duri dell'emergenza: oggi non ne ha alcuno, a meno di non pensare secondo il criterio della «emergenza preventiva». E del tirare a campare: che ha ispirato l'ennesimo accordo confuso.
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